PENELOPE E L'AVANGUARDIA

Sul Corriere della Sera di oggi, Claudio Magris sulle avanguardie. Con cosmico interrogativo iniziale (ma siam così certi che le avanguardie letterarie siano sparite?):

Le avanguardie che, più o meno un secolo fa, hanno
aggredito, scardinato e profondamente arricchito e rinnovato i
linguaggi in ogni settore artistico, sono un grande capitolo del
passato, come lo stile neoclassico o le tragedie in versi martelliani,
oppure un seme che sta ancora germogliando nascosto ed è destinato a
spaccare la terra, a far saltare per aria la nostra realtà culturale
sempre più stereotipa e convenzionale?
Talora la grande avanguardia del
primo Novecento, trasformata e rinata come una farfalla negli anni
Cinquanta e Sessanta per poi sostanzialmente sparire di nuovo, almeno
in letteratura, sembra un’adolescenza iconoclasta bloccata dalla storia
come un corpo irrigidito in un gesto irriverente dalla lava di un
vulcano. Altre volte sembra invece di avvertire, sotto il palcoscenico
del nostro spettacolo culturale risaputo e iterato, lo scricchiolio di
qualche talpa che scava sottoterra e corrode il teatro, per farlo un
giorno crollare liberando i prigionieri incatenati nel suo edificio.

L’avanguardia è stata una sortita contro quell’«assedio di parole» che,
come dice Gian Luigi Beccaria nella prima riga del suo Per difesa e per
amore
, ci stringe d’intorno. Il libro di Beccaria è un capolavoro, un
saggio rigoroso e un feroce e ilare referto clinico sulla lingua
(italiana) oggi che diviene un vero grottesco romanzo delle parole che
si affollano, si adulterano, si storpiano, si trasformano, si
ribellano, schiacciano e vengono schiacciate, in un processo che –
attraverso la lingua – investe la vita e il mondo ed è ora liberatorio
ora falsificante, un suggestivo foulard che diventa un letale nodo
scorsoio. Le parole inquinate inquinano la realtà come un’epidemia;
forse nessun romanzo dà oggi l’idea della nostra vita – di cosa siano i
sentimenti, le avventure, i pericoli, gli ingorghi della mente e del
cuore, le impennate, le turpitudini della nostra esistenza – come il
saggio di Beccaria, che fa i conti con le parole «dure come sassi»,
diceva Nietzsche, contro le quali si inciampa e ci si rompe una gamba.
Sulle orme di Nietzsche – secondo Giuliano Baioni, vero «padre
dell’avanguardia» – quest’ultima ha cercato di squarciare la lingua per
liberare la vita imprigionata nelle sue rigide catene metafisiche e
sintattiche, di strappare la sua camicia di forza imposta al fluire di
sentimenti, pulsioni, fantasie, invenzioni. Uno dei movimenti più
intensi dell’avanguardia è stato il Dadaismo e il Dada – ha scritto uno
dei suoi più acuti studiosi, Luigi Forte – gioca con il linguaggio e lo
distrugge, si rivolge a Proteo e alle inafferrabili e incerte
metamorfosi del reale, «esalta l’istrionismo per ridicolizzare la
società che imputridisce in convenzioni». Hugo Ball, fondatore del
Cabaret Voltaire a Zurigo, col quale nasce il Dadaismo, esortava a non
credere all’esistenza della sua persona e diceva di «simulare con
grande sforzo un’esistenza reale»: negava cioè beffardamente in se
stesso l’Io compatto e unitario, cardine del pensiero, della cultura e
della società borghese, dei suoi valori, pregiudizi, tabù, divieti.
Questa parodistica autonegazione – riportata da Piergiulio Taino
nell’incisivo saggio che accompagna la sua ottima versione del romanzo
di Ball Flametti o del dandismo dei poveri (1918) – è forse la chiave
di Ball e del movimento dadaista, della loro programmatica ricerca di
instabilità e incertezza, della loro fuga da ogni identità definita.
Ball, osserva Taino, non si lasciava accalappiare una volta per tutte
neppure nella maschera dell’anarchia, alternando scritti eversivi e
piroette assurde a testi almeno formalmente più tradizionali. Flametti
, ad esempio, contrariamente a molte opere dadaiste, rispetta i canoni
della comprensibilità immediata, della sequenza cronologica, della
vicenda, della caratterizzazione dei personaggi e così via. Ma dietro
la facciata del racconto esplode un’irrazionalità pirotecnica che
risucchia personaggi e vicende e rovescia la cosiddetta realtà come un
guanto. Il romanzo narra le travagliate, clownesche vicissitudini di
una compagnia di varietà; i protagonisti – a cominciare dal sanguigno e
cialtronesco impresario che dà il nome al libro – sono attorucoli da
strapazzo, soubrette spampanate e attempate, illusionisti, musicanti,
saltimbanchi ai margini della società e della legalità.
Come dice
l’omonimo titolo di un ricco libro di Alessandro Fambrini, «la vita è
un ottovolante»; il circo diviene la più autentica metafora
dell’esistenza. L’artista – ma, prima ancora, l’uomo stesso, visto che
questi «artisti» praticano una sola arte, quella del difficile e comico
sopravvivere – è un acrobata sempre in bilico fra l’eleganza del salto
mortale, la gigioneria del trucco e la triste buffoneria del
capitombolo. Nel romanzo ci sono molti personaggi, eccentrici e
interscambiabili come gli attori nei diversi numeri circensi; non
esistono né individui né ordine né sistema, ma esiste solo l’istantanea
capriola dell’evento. Le cose si animano, le persone si reificano, le
ballerine che cantano sono seni che succhiano l’aria e bocche che si
aprono ritmicamente; la procace equilibrista che cade su un tavolo
dell’osteria-teatro rompendo i bicchieri è Venere che nasce dalla
schiuma della birra.
Parodia di se stessa, l’avanguardia denuncia
le ambizioni totalitarie insite nelle sue anarchiche giravolte; nel
capocomico truffaldino e ribelle Flametti c’è il potenziale crudele
tiranno, così come Kundera ne La vita è altrove , ha smascherato il
totalitarismo terrorista latente nel cinismo irresponsabile.
Analogamente, l’avanguardia, nata per sabotare il linguaggio borghese
impersonale e standardizzato e il consumo dell’arte, ha pure fornito un
linguaggio alla più pacchiana e consumistica pubblicità: «Non c’è
Ssstrapp se usi Ace» o «GiRRRmi», réclame citate da Beccaria,
potrebbero essere due liriche aggressive. Ma l’avanspettacolo labile e
precario caro a certe avanguardie ha la forza della vita e del suo
rinnovarsi; come altri e ben più grandi testi, pure Flametti ricorda
che senza quelle insolenti e giocose insensatezze la realtà si
mummifica.
L’avanguardia distrugge più che costruire, ma in certe
condizioni storiche – come forse la nostra – il lavoro più creativo e
umano di Penelope non è la ragionevole tessitura diurna, ma l’opera
notturna che disfa quella tela.

3 pensieri su “PENELOPE E L'AVANGUARDIA

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