Non avrei mai cominciato a scrivere narrativa, non me lo sarei permessa, se non avessi conosciuto Chiara Palazzolo. Domani sarebbe stato il suo compleanno. Tutto quello che lei mi ha dato non è restituibile. Grazie a lei ho pensato che potevo provare ad autorizzarmi a tentare. Che sia stato un bene o un male non sono io a doverlo dire. Ma è un fatto, e quel fatto mi rende quella che voglio essere, ed è moltissimo. Per questo in quello che scrivo c’è sempre un personaggio che si chiama Chiara, e sempre ci sarà. Ed è quello a cui sono più affezionata.
Ogni volta, mi torna in mente una sera di Halloween, il compleanno appunto di Chiara, del 2007. La sua trilogia di Non mi uccidere era un trionfo, Ancora dalla parte delle bambine era in uscita. Avevamo festeggiato con una pizza, fumando sigarette nella sera dolce. Ci sentivamo forti. Ci sentivamo invincibili. Quello che era accaduto dopo, e quello che era accaduto prima, l’ho raccontato in un capitolo di Questo trenino a molla che si chiama il cuore. E’ qui:
“Apro Non mi uccidere all’Osteria del cacciatore di Muccia, è quasi la primavera del 2005 e sono qui per vedere la casa che sarà infine la mia, l’unica davvero mia, piccola ma con le due montagne in vista. Apro dunque il libro e leggo l’esergo, che è tratto da Tutte le mattine del mondo di Pascal Quignard, e poi leggo il libro, e mi dico oddio finalmente una scrittrice italiana che sa scrivere fantastico, e qui comincia tutto, in quella notte a Muccia, mentre io tardo a spegnere la luce per continuare a leggere, qui comincia la mia amicizia per Chiara Palazzolo e quasi contemporaneamente, come un’altra lingua della stessa fiamma, il desiderio di scrivere io stessa, perché quando si legge qualcosa di bello, qualcosa che risuona e luccica in risposta, la voglia viene, e dunque qui nasce la storia di Chiara e Loredana e poi la storia di Lara e Loredana.
Lara ha mentito e ha mentito Chiara, perché non è vero che dopo la morte si parla. Nessuno lo fa, se non nelle orecchie di chi ha amato e ricorda. Questo, dunque, è un altro confine da varcare, il più difficile, quello fra vita e morte, fra perdita e memoria. Lo varco nel 2012, due volte, a marzo e in agosto, e nel momento in cui passo so che il piede che rimane ancora indietro calpesta una strada che ho amato troppo e che il suo ricordo, pur se nel tempo composto e sereno, mi strazierà per la vita intera.
Questo penso mentre il tempo si ferma il 6 agosto intorno alle dieci del mattino. Sono alla Fiera di Pistia o di Plestia o di Plestina, dove tutti andiamo ogni primo lunedì del mese dal 1998 e poi tutti gli anni, dapprima a frugare fra magliette e giocattoli, e poi col tempo fra magliette e orecchini, e infine a guardare annoiati campanacci e scope di saggina e cinture. Ogni anno ci diciamo che la fiera non è più quella di una volta, e questo è perché le cose che emergevano dai calcinacci e si potevano rivendere sono finite, e hanno già trovato la loro collocazione davanti a un camino o sopra la testiera di un letto, e ogni volta comunque andiamo, lasciando la Statale 77 e procedendo nell’altopiano verso Plestina o Pistia o Plestia, dove dal Medio Evo in poi si è sempre tenuta la fiera, prima da maggio a settembre e poi solo il primo lunedì del mese, e fino a pochi anni fa si portavano i vitelli e le mucche e le pecore e i somari e poi i trattori e prima gli aratri, e si mercanteggiava con i contadini coi vestiti di velluto a coste e il cappello in testa, e ora vestito così è rimasto solo il venditore di rame, pentole e paioli e attizzafuoco, e il resto è come le altre fiere, il camion frigo che fa i panini col ciauscolo con la porchetta con il pecorino, e poi le bancarelle con i dinosauri di plastica e le Barbie finte e i vestiti di garza e le magliette della juve, e intorno le linee dolci delle colline, e il verde tenero del radicchio e il sole che frigge la testa e ti fa scappare dopo un’ora, se non hai avuto la prudenza di portare il cappello.
Qui dunque si concretizza e si completa la frattura di un mondo che finisce per lasciare posto a un altro, e ogni volta ricominciare è chiedersi come, e con chi, e verso dove, come è giusto che sia quando si varca il confine. Mentre compro un vestito a fiori per pochi euro, so che il mio piede sinistro sta per staccarsi dalla terra, e che dovrò dire ancora una volta addio, e che quello che è avvenuto a marzo non è che la prima parte, il passo del piede destro.
Dunque sono alla Fiera di Plestia, ed è lunedì mattina e ho comprato un vestito bianco a fiorellini che ho infilato in una busta che dondola al polso sinistro, e sento il bip del telefonino. Un messaggio. E’ Anselmo. Forse vuole farmi sapere come Chiara ha passato la notte. Perché la domenica aveva dormito, dice, di un sonno strano. E insomma col mio vestito a fiori nella busta di plastica sento il bip e apro il messaggio e il messaggio dice “Chiara si è addormentata e non si è svegliata”, e passano tre o quattro secondi prima di capire e quando capisco mi torco in avanti come per vomitare e invece piango forte in mezzo alla fiera, e non sono i pianti rinfrescanti di Tony Buddenbrook ma una cosa che rimane dentro, come se ci fosse sempre e ancora oggi una pozza limacciosa che non spurga, e rimane dentro di me, un dolore sordo e dormiente come il terremoto della Valle, che è sempre là, sempre in agguato, una bottarella ogni tanto, ma là resta, e non va via, e non importa se dopo venti giorni, sulle panche allestite nello spiazzo sotto il comune, dove ancora ci sono i prefabbricati del terremoto per la mensa, avrei cantato insieme ai miei vecchi amici d’infanzia Il cielo è sempre più blu con gli Old boys, che poi sono i vecchi ragazzi di allora, ancorati a quando cantavamo insieme al mangiadischi, e non importa chi abbiamo perso nel frattempo, quanto della nostra vita sia stato mangiato via. Siamo noi, siamo qui, siamo vivi, all you can eat. E’ vivo anche il paese, anche se viene rosicchiato ogni giorno di più. Facciamo musica, come si è sempre fatta qui, e mio nonno suonava il clarinetto e quando mio padre cantava Parlami d’amore Mariù diceva quantu si stunato fijo, e anche mio padre è stato rosicchiato e mangiato via dalla morte, e noi siamo qui, a fare musica davanti al cantiere della superstrada, come si è sempre fatto, perché a Serravalle si canta sempre, la banda l’hanno inventata nel 1870, fatta da boscaioli, carbonai e pastori, analfabeti ma canterini e suonatori, facevano le prove fino a tarda notte, marciando pure due ore dai borghi e dai casolari, e pagavano gli strumenti a rate e si erano cuciti la divisa per suonare nelle fiere. E dunque sì, avrei cantato il cielo è sempre più blu, che poi Saturno sarebbe entrato in Scorpione. Ma quello che ho perso non sarebbe tornato. Così come non tornerà la Valle che conoscevo. Così come non tornerà nessuno dalla morte”.
V’erano rocce
e boschi informi. Ponti sopra il vuoto
e quell’immenso grigio, cieco stagno
che premeva sul fondo come un cielo
di pioggia sui paesaggi della terra.
Fra i prati tenue e piena di promesse
correva come un lungo segno bianco
l’incerta traccia della sola strada.
E quell’unica strada era la loro.
Rilke, Orfeo Euridice Hermes