Ho smesso di guidare diciannove anni fa. L’ho fatto perché una città come Roma ti impone di scegliere tra la conservazione di un briciolo di serenità e l’automobile. L’ho fatto anche perché ho studiato antropologia, e ricordo una lezione lontana nel tempo dove imparavo, grazie a Claude Lévi-Strauss, che i segnali impercettibili che un guidatore lancia, una postura delle spalle, una lieve torsione del collo, permettono di capire se sta per azionare le frecce, o sorpassare, o frenare, e che la difesa del territorio passa anche per un’auto, e che spesso, spessissimo, per difendere quel territorio si diventa feroci come i nostri antenati. L’ho fatto, infine, perché essere chiusi in un abitacolo non ti fa capire dove vivi, e quando leggo, a pochi giorni di queste elezioni così come di quelle del 2018, che alcuni colleghi letterati-eletta schiera intendono prendere finalmente i mezzi pubblici “per capire” mi viene un moto di tenerezza (anche un poco di rabbia, certo): non si capisce moltissimo prendendo i mezzi pubblici, si tocca, semmai, con mano la disperazione e ci si sente impotenti.
Sono in questo preciso momento le 9.33 del mattino. Sono uscita di casa alle 8.12. Nel tragitto, breve, fra la mia casa e la metropolitana una donna mi si è parata davanti, impedendomi di proseguire. Aveva occhiali che ingrandiscono gli occhi, un forte accento siciliano, giacca scura invernale perché maggio sta finendo ma fa freddo, sembra la primavera nera e gelata di cui spesso parla Stephen King nei suoi romanzi, e le primavere gelate non sono quasi mai di buon auspicio, anche fuori dal Maine. “Ho perso il lavoro”, mi ha detto la signora, sbarrandomi il passo. “Mi dispiace”, ho mormorato io, non sapendo cosa dire, né cosa fare, perché la signora non voleva un’elemosina, voleva dire a qualcuno che aveva perso il lavoro. E che rispondi, caro collega letterato? Davvero, che rispondi?
Venti minuti dopo, snodo linea B-linea A, banchina Termini, direzione Battistini, turisti e ancora turisti, aspetti una due tre quattro vetture per entrare. Mentre sto per prendere la quarta sulla banchina arriva una donna giovane, con un ombrello, i capelli raccolti in una coda di cavallo. Grida. Grida che ha perso il lavoro, continua a gridarlo, a insultare non so chi, qualcuno che, lei dice, “va squartato come un cesso dalla folgore di Dio”. E che dici, collega letterato? Chini la testa sul giornale con i titoloni ormai a tre quarti di pagina che parlano sempre di lui, sempre di Salvini, e ti chiedi cosa puoi fare tu, che nella mente della giovane donna dovresti essere colpito dalla stessa folgore divina, per il solo fatto di avere un lavoro, una casa, un giornale fra le mani, un libro nello zaino.
In questi giorni continuo a sperimentare quel che so: l’impotenza, laddove impotenza significa impossibilità di dire che tu sei dalla parte di quelle donne, ed è impossibile dirlo perché non sai come dimostrarlo. Oh, certamente, tu sei una che il potere, il trono di spade, l’unico anello li hai sempre schivati, e non hai mai, mai, preso parte agli intrighi dietro le quinte, alle corse a ingraziarsi un capo, al farsi voler bene a ogni costo, e questo ti rende certamente priva di potere e con pochi soldi a disposizione ma non ti assolve perché comunque la tua è una condizione di privilegio assoluto, perché appunto hai un lavoro, una casa, libri da leggere, una famiglia che viene nutrita e riscaldata quando la primavera è gelata. Ma non basta, non può bastare più.
Come si rilancia, allora, al di là delle mille analisi, delle promesse non mantenute, della militanza quotidiana sui social, dove ti capita di osservare da vicino il disprezzo, per dire, verso i terremotati che hanno votato in maggioranza e spesso in enorme maggioranza la Lega (“sfaticati”, dice una l’altro ieri, “contadini”, ribatte un artista piovuto da chissà dove ieri sera)? Come si rende vicino e nostro quello che comunque sentiamo lontano?
Martín Caparrós, nel suo libro “La fame”, diceva: “Conosciamo la fame, siamo abituati alla fame: abbiamo fame due, tre volte al giorno. Nelle nostre vite non esiste niente che sia piú frequente, piú costante, piú presente della fame – e, al tempo stesso, per la maggior parte di noi, niente che sia piú lontano dalla fame vera”. Il Partito radicale, sul finire degli anni Settanta, sognava di sconfiggere “la fame e la morte” (su Radio Radicale potete ascoltare il convegno del 1979 con, tra gli altri, Marco Pannella e Giulio Carlo Argan).
Ora, occorre trovare, se non un sogno, risposte. Occorre vedere chi pone domande. E, no, non basta il pubblico proposito di prendere i mezzi pubblici. Occorre la forza di un progetto impossibile.
È vero ,di fronte a chi perde il lavoro ma tu l’hai ,anche se il terremoto ti ha preso tutto il resto delle cose,ti senti impotente e ti ritieni fortunata,
Quando persi il lavoro, vissi il problema inverso: come fare a NON dirlo. Poi mi gettai a capofitto in attività di volontariato mentre proseguivo le mie lotte giudiziarie per ottenere un minimo di risarcimento danni, data la palese ingiustizia delle motivazioni di quel licenziamento. Eppure mi vergognavo di NON avere un lavoro. Poi, man mano mi è passata, anche perché scoprivo quanti e quante stavano nelle mie stesse condizioni. Oggi che sono stato “costretto” a essere imprenditore (sto imparando, non so neanche se mai riuscirò nella mia attività nella quale ho investito tutto quel che avevo incassato), di fronte a chi ha il coraggio di dichiarare di essere senza lavoro provo solo un naturale moto di comprensione ed empatia e chiedo semplicemente: “Come la stai vivendo? Non materialmente, ma psicologicamente. Perché per me è stata durissima”. E, di norma, scatta un dialogo. Non sempre liberatorio, perché comunque ci si sente soli come con la propria morte.