Quando sono a casa col raffreddore e consumo scatole di kleenex cercando di schiarirmi la testa, faccio cose stupide che hanno a che fare con il raffreddore stesso, o l’influenza. Come rileggere The Stand di Stephen King, o Spillover di David Quammen (i libri che riguardano direttamente la peste li ho studiati in questi quattro anni, per scrivere il mio, che adesso è fermo perché credo proprio che occorrerà rimetterci le mani). Oppure guardare film scemetti, come Contagion di Soderbergh: il quale, in verità, fa abbastanza impressione se rivisto oggi, perché è del 2011, quindi post-Sars, ma anticipa parecchie cose, numeri a parte, di quel che avviene ora, quanto a trasmissione, mutazione e provenienza del virus.
Quello che mi interessa, in questi casi, non è tanto la catastrofe e i lazzaretti e le fosse comuni e insomma le vittime, quanto la reazione dei sani: paura, sospetto, caduta della solidarietà, aumento dell’aggressività, speculazione da parte di alcuni, generosità da parte di pochi altri, accumulazione di scorte alimentari. Sull’ultimo punto, ricordo bene quel che avvenne nell’anno di Chernobyl, quando il latte a lunga conservazione era razionato e quasi introvabile, visto che non si poteva bere quello fresco. Ogni volta, mi stupisco nel constatare quanto non siamo cambiati, e quanto le nostre reazioni sono identiche a quelle dei nostri progenitori.
Qualche tempo fa, un mio amico di Facebook, Giancarlo Manfredi, che fa il Disaster Manager, mi ha raccontato che l’apocalisse zombi non è solo una fantasia horror, ma che sia il CDC di Atlanta che l’esercito degli Stati Uniti l’hanno usata per pubblicare due manuali di sopravvivenza in caso di pandemia. E dunque di crollo della struttura e dei rapporti sociali così come li conosciamo.
Scrive Giancarlo Manfredi:
“I cosiddetti “non-morti” sono creature che fanno da tempo parte dell’immaginario collettivo, grazie ad una lunga sequenza di opere cinematografiche e di serie televisive (nonché di romanzi e di graphic novel), pur evolvendo da creature orrorifiche del folklore haitiano a rappresentazione delle paure insite nel profondo della società occidentale: metafore insomma, di una consuetudine che cambia bruscamente e determina il crollo repentino di quella (sottile) patina che rappresenta i rapporti umani, civili e solidali.
Fateci caso: uno dei primi episodi che seguono l’annuncio di un vero e importante evento calamitoso è sempre la corsa ai supermercati per l’incetta di generi di prima necessità e, a seguire, partono spesso saccheggi veri e propri oltre agli immancabili fenomeni di sciacallaggio (purtroppo quanto mai presenti ancora oggi, anche in forme telematiche), per finire in episodi di guerriglia urbana; e, ancora una volta, non è affatto casuale se più di un lungometraggio hollywoodiano propone scene dove gli zombi invadono un centro commerciale, comportandosi come se fossero ancora vivi e, pur nutrendosi di esseri umani, si mostrano dipendenti dal caffè, o alla ricerca apparente di connessioni wifi o mentre si scattano selfie con tutta la classica sequenza di comportamenti ossessivi compulsivi tipici del nostro essere (e che i cosiddetti non-morti avevano evidentemente metabolizzato già prima del loro contagio).
Oggi giorno la metafora più sfruttata narrativamente riguarda piuttosto la paura verso il diverso (l’invasione dei migranti) e, tuttavia, scenari post-apocalittici come quelli immaginati nei citati manuali statunitensi non sono del tutto fantascientifici, almeno nel momento in cui la percezione che i soccorsi possano non giungere, arriva (è il contagio infodemico a disgregare i rapporti tra le persone delle comunità (se non tra le nazioni stesse, la cui propensione al sovranismo è già di per se un preoccupante sintomo).
In un simile scenario, data la (fragile) interdipendenza della nostra società urbana/globalizzata, parlare di resilienza sociale e psicologica potrebbe essere quanto mai improbabile e la parola (forse tabù per chi parla di Protezione civile) da utilizzare potrebbe essere quella di mera e pura sopravvivenza ma, su quanto efficaci nel medio-lungo termine siano le tecniche proposte dalla narrativa pop, qualche dubbio temo di averlo… “.
Per quanto si cambi, siamo sempre gli stessi. Capaci certamente di amore, più spesso, ahimé, vinti dalla paura.
Si diceva qui in casa come la fantascienza letta da ragazzi prevedesse quasi perfettamente quello che succede. Ieri c’era un cinese al supermercato, qui in campagna e mi sono stupita che nessuno gli dicesse niente…l’ho trovata una cosa buona, per una volta. Americani: anche Il gioco di Ender, di Orson Scott Card veniva usato come manuale di formazione per i marines a Quantico.