S’era sognato come se tutto il mondo fosse condannato a rimaner vittima d’una qualche malattia mortale, mai vista né sentita, che dal profondo dell’Asia avanzava in Europa.
Fëdor Dostoevskij, Delitto e Castigo
In questi giorni mi passano davanti agli occhi, sui social, i post del 2020, in pieno lockdown. Rileggo e rivivo lo smarrimento, l’incredulità delle strade deserte, i cieli pieni di uccelli, il silenzio. Ma anche: gli inviti, pure istituzionali, a denunciare gli assembramenti e comportamenti ritenuti scorretti via portale, whatsapp, post su Facebook.
Ripenso a come tutto questo è stato raccontato in quei giorni. E leggo anche di come viene raccontata dai social media manipolati dagli Stati Uniti la necessità di “prendersi la Groenlandia”. Penso al linguaggio che, per inciso, è un virus esso stesso, diceva il vecchio e amato William Burroughs. Significa che le parole che abbiamo usato hanno generato un problema. Più d’uno, in verità.
Scartabellando fra i soliti materiali usati nel tempo per il mio romanzo sulla peste, ho ritrovato, di nuovo, un articolo molto interessante uscito nel 2007 su The Believer (Isbn). L’articolo è di un giornalista americano, Jyoti Thottam, e si intitola La peste come linguaggio.
Il punto di partenza non può che essere la Susan Sontag di Malattia come metafora, laddove il linguaggio militaresco che “riempie di senso” la malattia “non fa che isolare chi ne soffre”. Ma cosa succede quando quel linguaggio militaresco non riguarda più il cancro, e dunque il singolo in quanto malato ma non contagioso, ma la collettività? “L’Aids ha reso il cancro banale”, diceva Sontag. Ma la metafora si estende. Scrive Thottam:
“A metà degli anni Ottanta un gruppo di scienziati americani cominciò a sospettare che l’Aids non fosse che il primo di una lunga serie di nuove malattie infettive. Si incontrarono ufficialmente nel maggio 1989 per discutere le similitudini di alcune malattie fino a quel momento considerate indipendenti fra loro, da Ebola all’influenza”.
Da quegli incontri non solo nacque un testo, “Le nuove malattie infettive: la minaccia batterica alla salute degli Stati Uniti”, dove si paventava la pandemia, ma una serie di bestseller. Nel 1994 esce Area di contagio di Richard Preston, poi The Coming Plague di Laurie Garrett, da cui viene tratto il film Virus letale e dove si mette in scena la catastrofe. In quel film gli scienziati mostrano a un gruppo di ufficiali cosa accadrebbe se il virus non venisse circoscritto: c’è una mappa degli Stati Uniti dove i tre casi sono evidenziati in rosso. Quel rosso diventa una macchia che si espande a dismisura. L’avete vista anche voi, e proprio cinque anni fa.
Ai tempi dell’Aids, e poi della Sars, l’idea del giorno del giudizio a lungo paventato sembrava divenire realtà. Di più, all’Aids vennero attribuite le antiche capacità di “avvertimento” per i nostri errori. In Plague’s Progress, Arno Karlen scrive:
“L’abbiamo provocata rompendo la struttura dell’ambiente intorno a noi, modificando i nostri comportamenti e, ironia della sorte, per il troppo ingegno nell’aver prolungato la nostra vita e averne migliorato la qualità”.
Questa vena mistico-religiosa-punitiva, questo neanche troppo criptico invito al pentimento, alla solitudine, alla riscoperta di se stessi se va bene, esiste anche oggi come esisteva cinque anni fa: le altre pesti che stiamo attraversando ci invitano a chiuderci, a prepararci i kit di sopravvivenza, a parlar d’altro, di serie televisive per esempio, a evitare il “miasma” che favorisce il flagello.
La caligine spessa, così la chiama Ovidio, che cala sulla terra. Le nubi che si saldano una con l’altra formando una morsa d’afa spossante. Comincia così, con l’aria che si ferma e diventa pesante per quattro mesi, e in quella cappa, diceva sempre Ovidio, migliaia di serpenti strisciano in campi desolati, e contaminano i fiumi con il loro veleno. Comincia con il non potersi muovere per il caldo soffio del vento, e nel non vedere la serpe che fra l’erba sparge quella che non è ancora morte, ma lo diventerà.
Per dirla con Sontag, “per trarre una morale dalla malattia, ci vuole quello che comporta il miasma, ovvero l’infezione generalizzata dell’atmosfera”. E serve, sempre, il passaggio di stato, il mondo “moderno” che viene a contatto con il mondo “arcaico”. Nelle prime cronache del coronavirus si stigmatizzava l’arcaismo alimentare dei mercati di Wuhan, se ricordate bene. Sempre, la causa è la mobilità delle persone. La salute della nazione è sempre a rischio ogni volta che si varcano i confini del paese, dunque, scrive Thottam,
“la metafora militare diventa indispensabile. Se viene usata per rappresentare il cancro, trasforma le cellule tumorali in invasori, e il corpo in un esercito che combatte contro se stesso. Nella letteratura dell’Aids, l’invasore è esterno, un virus, ma un virus che mina subdolamente le difese del corpo: l’HIV è un guerrigliero. Risorta per venire in aiuto alle nuove malattie, la metafora militare è più forte che mai. Però l’obiettivo non è il corpo di un singolo, ma l’intera nazione. La sanità e la sicurezza pubbliche sono indistinguibili l’una dall’altra. Esplosioni della malattia e attacchi di bioterrorismo vengono percepiti nello stesso modo (…) L’autorità che si viene chiamati ad ascoltare non è un medico o un epidemiologo, ma un poliziotto”.
Dunque, la malattia si trasforma in un crimine. Dunque, l’omissione iniziale dei casi di Sars in Cina è anche legata (o potrebbe essere legata) alle metafore usate per descriverla: perché la nuova narrazione del contagio “è capace di generare gli effetti della malattia anche dove la malattia è assente”.
Conclude Thottam:
“L’unica metafora utile è quella di Dostoevskij. I sogni, dopotutto, funzionano secondo una loro logica. Possono mostrarci di cosa abbiamo veramente paura rappresentandolo con un’immagine di qualcos’altro”.
Serve a qualcosa parlarne? Sì, moltissimo. Serve come serviva allora lavarsi le mani. Perché abbandonarsi al flusso di notizie e contronotizie non ha fatto che immergerci nell’abitudine all’eccezionalità. Occorre sempre guardare quell’eccezionalità negli occhi, e sapere esattamente dove siamo.
Lo ha fatto, per esempio, Le Monde Diplomatique, in un articolo che riflette sul confinamento, e dice: “La chiusura della primavera 2020 è una delle esperienze umane più rilevanti e meno dibattute degli ultimi anni”
Noi non lo abbiamo fatto, non lo stiamo facendo. Ed è un virus, anche questo.