Barbès editore è uno di quei piccoli marchi che fa buoni, e spesso ottimi libri. Ce ne sono altri (penso a Aìsara, penso a Exorma, penso a Zero91) che escono dalla logica dell'”ehi, che filone tira al momento?” e invece di inondare gli scaffali di romanzi con manette e cup cakes, o le due cose insieme, pubblicano quel che ritengono interessante. Per esempio, nel caso di Barbès, un romanzo dolente e per nulla insidiato – nonostante le apparenze – dalla tentazione dell’autofiction da lacrimuccia come “Lettera al figlio che non avrò” di Linda Lè (traduzione di Tommaso Gurrieri).
Da ieri pomeriggio Barbès non c’è più. Visti i problemi finanziari di Edison Group, proprietario della sigla, l’intera redazione si è dimessa e ha fondato un nuovo marchio indipendente, Edizioni Clichy (quartiere parigino contiguo a quello di Barbès) con cui manderà in libreria i primi titoli già nel 2013.
Auguri, naturalmente. E una chiosa: la preoccupazione per la scomparsa di luoghi dove qualità non è una parolaccia (e per qualità intendo non l’autismo linguistico, ma il suo significato più semplice: buoni libri, buone storie, un editing degno di questo di nome, un lessico che superi le 250 parole) viene spesso interpretato come snobismo. Noto, di recente, che al minimo accenno di complessità in un discorso scatta la battutaccia e subito dopo l’accusa di “intellettualismo”. Guardate che “intellettuale” non è un insulto. Guardate che complesso non significa ostile alla “ggente”. Guardate che abbiamo un problema. Quello non nuovissimo, ma ben esposto nell’articolo di Paolo Di Stefano su La lettura di domenica scorsa. Stiamo perdendo parole. Dunque, stiamo perdendo pensiero. E questo è un problema per la vita civile: non una questione di caste.
Mi spiego, capita anche con gli editori importanti che le prenotazioni di un titolo siano modeste, non per questo viene annullata la pubblicazione dopo un contratto e un lavoro già svolto
Sicura? Guardi che succede eccome.