E’ in tema con gli ultimi argomenti questa intervista di Simonetta Fiori a Luigi Onnis, pubblicata questa mattina in apertura di cultura, su Repubblica.
Chissà se si può raccontare un paese dai sogni di chi lo abita. Non dai progetti esistenziali o le aspirazioni ideali, ma attraverso il processo onirico collettivo, quella misteriosa e imprevedibile incursione notturna nel terreno dei desideri e delle paure. Sono cambiati i sogni degli italiani in questi ultimi decenni? E come si sono trasformate le loro nevrosi? «Quel che posso dire sulla base della mia esperienza», dice Luigi Onnis, 65 anni, neuropsichiatra e psicoterapeuta famigliare con un´ampia rete di contatti e di pratica internazionale (presidente onorario della European Family Therapy Association), «è che sempre più frequentemente i sogni dei miei pazienti hanno a che fare con il rischio di precipitare in un abisso, scivolare rovinosamente senza trovare ancoraggi, o anche essere travolti da qualcosa che crolla e li sommerge». Ne affiora il sentimento d´angoscia come cifra emotiva dell´Italia di oggi, dove i disagi psichici più frequenti ci rendono così diversi dagli italiani di quaranta e cinquant´anni fa. «Però è doverosa una premessa», interviene Onnis, una lunga esperienza con Basaglia, Jervis e Terzian e autore di numerosi libri pubblicati in Italia e all´estero (il più recente, Lo specchio interno, sulla diffusione della psicoterapia in Europa, uscito da F. Angeli). «Questa intervista non sarebbe stata possibile senza Franco Basaglia. È grazie a lui se oggi interpretiamo il malessere psicologico non come prodotto d´una malattia biologica ma anche come il frutto d´una temperie storico-culturale, oltre che del contesto sociale e famigliare».
L´ha conosciuto a Gorizia?
«Sì, l´ho incontrato per la prima volta tra la fine degli anni Sessanta e l´inizio dei Settanta, quando io ero uno studente di Medicina e Basaglia stava realizzando la prima importante esperienza di trasformazione manicomiale. Ho assistito alle “assemblee” con pazienti segregati da decenni. Ricordo una donna che improvvisamente si alzò per fare una domanda: era la prima dopo 25 anni di mutismo».
Che cosa chiese?
«Una domanda sul vitto dell´ospedale, cosa molto banale. Ma era la prima volta che esprimeva un bisogno. Un´esperienza straordinaria».
La legge 180 raccoglieva speranze poi realizzate solo in parte.
«Diciamo meglio: la legge ha segnato una fondamentale svolta culturale rispetto alla quale non si torna indietro. Il manicomio è stato definitivamente superato: non è un´istituzione che cura ma che segrega. La riforma però è stata attuata solo a metà».
Era prevista la costruzione di strutture intermedie.
«Un processo che ha incontrato molte resistenze, per esempio da parte della cultura psichiatrica medica. Per restituire senso alla sofferenza psichica non basta prescrivere farmaci, ma è necessaria la diffusione di una cultura psicoterapeutica. Peraltro disponiamo delle migliori scuole di formazione, regolate da una legge che tutta Europa ci invidia. Ma quanti sono oggi i servizi pubblici di psicoterapia in Italia? Io ho il privilegio di dirigerne uno universitario all´interno del Policlinico Umberto I di Roma: un´eccezione, non la regola. Abbiamo abolito i metodi segregativi propri del manicomio, ma non un atteggiamento che distanzia il malato».
Qual è il disagio psichico più diffuso oggi?
«Un fenomeno crescente nell´ultimo decennio è l´attacco di panico: l´ansia travolgente, un senso di spaesamento angoscioso e di perdita di sé, che sconvolge il corpo con una sensazione di morte imminente».
L´ansia fa parte della vita…
«… del “mondo della vita” come dice Husserl. Ma il panico è una forma incontrollabile, che appare all´improvviso e senza apparenti ragioni. Viviamo nella società dell´incertezza, dominata da una precarietà che non è solo economica. Una società liquida, secondo Bauman, in cui è diffuso il sentimento della perdita di ancoraggi culturali, relazionali e affettivi. Anche la famiglia e la coppia, tradizionali nuclei di appartenenza, sono in rapida trasformazione. Oggi un italiano su cento soffre di attacchi di panico, una media piuttosto alta».
Più alta che altrove?
«No, in linea con le percentuali del mondo occidentale. Ma è questo il dato di novità, che investe tutte le nostre nevrosi: se prima c´era una distanza abissale con i disturbi dell´americano medio, oggi quella differenza è venuta meno. Un altro elemento interessante è la crescita della bulimia, ancora più diffusa dell´anoressia».
Non sono le due facce di un medesimo problema?
«Sì, esprimono entrambe la difficoltà di crescere, assumendo un corpo maturo e sessuato. Le adolescenti femmine sono più soggette ai disturbi alimentari perché più esposte all´ambivalenza dei messaggi. Che tipo di donna voglio diventare? Spesso la scelta è difficile e si tende a rimandarla in una sorta di “tempo sospeso”. Quel che però va sottolineato è la diversa modalità del disturbo alimentare».
Le forme sono opposte.
«L´anoressica rifiuta apertamente il cibo, la bulimica finge di accoglierlo, per poi eliminarlo al chiuso della stanza da bagno. La prima rende manifesta la sua opposizione, la seconda si nasconde. Non è un caso che l´anoressia restrittiva sia comparsa negli anni Settanta, stagione di rifiuti radicali, mentre la bulimia si sia manifestata negli anni Novanta, quando quella spinta si è attenuata ed è più difficile ostentare il proprio “no”. Oggi i bulimici sono tre volte più degli anoressici. Diciamo “no” di nascosto perché non ci sentiamo più autorizzati a farlo».
Ma ha qualche fondamento l´impressione di una maggiore tristezza degli italiani?
«La depressione ha un´incidenza crescente rispetto al decennio precedente, ma è un dato che riguarda tutta la popolazione occidentale: il 10 % ha avuto almeno un episodio depressivo. Proprio nel momento in cui internet ci mette in contatto col mondo, ci sentiamo tutti più soli. Le cause sono diverse, ma sottolineo qui un aspetto: ci siamo liberati dalle ideologie, e questo ha rappresentato per certi versi una liberazione da ortodossie rigide. Ma non le abbiamo sostituite con solidi valori di riferimento. La globalizzazione contiene enormi potenzialità, ma ora la viviamo con un senso di sradicamento».
Lei sostiene che il papa rinunciatario di Nanni Moretti è affetto da depressione anziché da panico. Perché?
«Esprime il sentimento di inadeguatezza di chi deve proporsi come massima guida, assumendosene la responsabilità anche nella trasmissione dei valori. Quel che mi ha colpito non è la rinuncia del pontefice, ma il bisogno profondo delle persone di avere questo simulacro, tanto che viene inseguito nelle forme fantasmatiche. Quando la guardia svizzera disegna sulle tende l´ombra del padre, la folla l´accoglie con applausi frenetici. È il bisogno angoscioso di un pastore che ci conduca».
Siamo dunque tutti più smarriti, tristi e anche più narcisi.
«I disturbi narcisistici della personalità rappresentano il quarto grande fenomeno di questo decennio. È la tendenza a concentrare la propria attenzione su se stessi, svuotando di valore e affettività il rapporto con gli altri».
Il narcisismo però non è una patologia recente.
«Sì, negli anni Ottanta uscì un libro molto famoso di Christopher Lasch, che lo considerava espressione di un reflusso dei movimenti di contestazione: dal “privato è politico” si passò a un ripiegamento sul privato e sull´individuo che resta solo alla ricerca di se stesso. Ricerca che si declina con il culto del corpo, la sessualità come prestazione, l´esorcismo contro gli spettri della vecchiaia e della morte. Fenomeni molto attuali, a cui oggi si aggiunge l´offrirsi teatrale allo sguardo dell´altro».
Esiste anche una forma pubblica del narcisismo?
«Già 25 anni fa Lasch parlava dello “spettacolo assurdo di una politica che soppianta la ricerca di soluzioni razionali con la teatralizzazione degli atteggiamenti”. Una sorta di profezia».
Quello che lei ha disegnato è un popolo sull´orlo di una crisi di nervi, anzi nel pieno di una crisi di nervi.
«La crisi è un passaggio obbligato. Oggi la crisi prende le forme dell´incertezza, ma è proprio da questa imprevedibilità che possono emergere risorse rimaste nell´ombra. “Quando noi ammiriamo la bellezza della perla”, diceva Karl Jaspers, “non dobbiamo dimenticare che è nata dalla malattia della conchiglia”. Non dobbiamo dimenticarcene mai».
in un libro dalla trama fragile ma ben scritto,”la notte eterna del coniglio” ad un certo punto la protagonista,annichilita da una situazione che pare senza via d’uscita,ritrova un forte impulso di sopravvivenza quando per motivazioni che ora mi sfuggono si mette a vomitare,quasi come se con quel gesto fosse riuscita liberare endorfine tese a nutrire l’istinto di autoconservazione.Ho pensato che la cosa potesse avere delle basi scientifiche,e che quindi il comportamento delle bulimiche ricalcasse per esempio quello dei cani che quando non stanno bene vanno a cercarsi l’erba che sanno che potrebbe sollevarle quel peso ancestrale che è sempre stato ascritto alla categoria mal de vivre,o nel caso delle bulimiche facesse riferimento a quello stratagemma usato se non sbaglio da molti insetti che in situazioni estreme si fingono morti,ma poi ho sperato di no
Ho dovuto leggere velocemente per cui commento velocemente stasera torno meglio – se trovo il tempo. Intanto:
1. Dio lo benedica per aver messo l’accento sulla necessità di costruire delle strutture intermedie dopo la chiusura degli orridi manicomi. E sulla necessità di una cultura psicologica e psicoterapica che manca completamente in Italia.
2.Una riflessione che mi suscita l’intervista. Io temp tristemente che la psicologia dei soggetti sia una variabile collegata all’adattamento alla contemporaneità. E quindi col variare di una variano gli altri, e la costante di disagio rimane la medesima assumendo forme storiche diverse di volta in volta. Mo’ ci so le bulimiche, prima c’erano le isteriche e via di seguito. Ora c’è la falsa liberazione degli impulsi, un tempo gli impulsi erano presi a mazzate. Quindi non è che ora stiamo peggio – stiamo male nelle forme che sono del nostro tempo con i vassoi che ci porge la nostra cultura. Ma ricordiamoci che prima di vassoi ce ne erano altri.
3. E ci piluccavano assai le donne (sti tristoni del tempo presente, fateci caso – so sempre omini. Psicoanalisti eh, filosofi etc. Gente che amo e da cui imparo. Ma omini eh….)
Bè, direi che qui ci si avvicina al cuore della questione sociale di oggi.
Solo un appunto. La definizione che dà del narcisismo(“la tendenza a concentrare la propria attenzione su se stessi, svuotando di valore e affettività il rapporto con gli altri) è descrittiva e semplificata, ovviamente il massimo che si può fare in un’intervista, però rischia di apparire fuorviante.
La sindrome nasce nella prima infanzia, quando il bambino ha ormai riconosciuto nelle figure parentali (la madre in primis) la fonte del suo benessere e la possibile soddisfazione dei suoi bisogni. Prima di questo momento, egli interpretava la madre come un tutt’uno con sè, nutrendo un sentimento di onnipotenza. Ora distingue il genitore da sè e comincia a sperimentarne la distanza, la possibile lontananza, da cui derivano per lui l’angosciosa attesa e la frustrazione. Il narcisista ha vissuto in modo particolarmente intenso e disturbante questo passaggio; per difendersi dall’angoscia dell’abbandono e dal dolore provocato dal desiderio frustrato di avere sempre i genitori accanto a sè cerca di “ristabilire le relazioni originarie dando vita nella sua fantasia a una madre e a un padre onnipotenti che si mescolano alle immagini del suo stesso sé” (Lasch). Reagisce dunque con la costruzione di un “Sè grandioso”(Kohut) alla fragilità del proprio sé, delegando a questo la protezione dal rinnovarsi della ferita, facendone lo schermo della propria vita emotiva. In questo modo, però, la stessa affettività risulta impoverita, in quanto la soddisfazione è subordinata alle gratificazioni che il “Sè grandioso”, vera e propria maschera del soggetto, è in grado di ricevere: “Malgrado le occasionali illusioni di onnipotenza, il narcisismo attende da altri la conferma della sua autostima. Non può vivere senza un pubblico di ammiratori”(Lasch). Tuttavia egli teme più di ogni altra cosa la dipendenza emotiva (perchè essa può rinnovare ad ogni momento la frustrazione del desiderio e il rischio dell’abbandono che tutta la sua costruzione vuole esorcizzare): quindi si difende dall’imprevedibilità della personalità altrui con una tendenza costante alla manipolazione e allo sfruttamento, tende a fuggire legami stabili, mentre è scarsamente disposto a riconoscere altro valore che il proprio, e quindi è irresistibilmente portato alla denigrazione.
Buon giorno,
leggere l’articolo del prof. Onnis, un pò in ritardo per la verità, è stato un contributo culturale su alcuni fenomeni sociali all’attenzione dei professionisti e delle professioniste specialiste nel mondo della cura alla persona psichicamente e socialmente parte della società.
Non ho elementi di cultura tecnica in tal senso per pormi in maniera dialettica, preme manifestare ammirazione e stima per il coraggio e per la semplicità del linguaggio usati nel dare una panoramica sulle patologie evidenziate.
Preme, altresì, rilevare la forza della speranza per noi di migliorare e nei casi specifici di guarire, nonostante le difficoltà quotidiane nel dire “no” o le patologie diffuse.
Speranza che si sente nel suo calore anche nelle parole e nella sequenzialità dialettica.
Grazie, quindi, al prof. Onnis ed alla giornalista Fiori che ha trasfuso quella positiva professionalità nelle pagine del giornale che mi auguro abbiano letto in molti prima e più di me.
Buon lavoro,
Daniela Buonamassa