Intervento molto bello, su Repubblica di oggi, del filosofo Remo Bodei su identità e comunità (peraltro, è anche un approfondimento collaterale di quanto si diceva a proposito della Rete). Ve lo riporto. Un’avvertenza: per alcuni giorni i commenti al blog saranno tutti moderati, e potrò renderli visibili in modo non continuativo, purtroppo. E’ la seconda volta, in sette anni, che avviene nella storia di Lipperatura, e questo vi dà l’idea della situazione. Pazientate.
Da termine filosofico e matematico per designare l´eguaglianza di qualcosa con se stessa il termine identità è passato a indicare una forma di appartenenza collettiva ancorata a fattori naturali (il sangue, la razza, il territorio) o simbolici (la nazione, il popolo, la classe sociale). Ci si può meravigliare che esistano persone, per altri versi ragionevoli e sensate, che credano a favole come l´”eredità di sangue” o l´autoctonia di un popolo, che si inventino la discendenza incontaminata da un determinato ceppo etnico o la sacralità dell´acqua di un fiume. Eppure, si tratta di fenomeni da non sottovalutare e da non considerare semplicemente folkloristici e ridicoli.
Si potrebbe obiettare – come hanno notoriamente mostrato eminenti storici – che la maggior parte delle memorie ufficiali e delle tradizioni è non solo inventata, ma molto più recente di quanto voglia far credere. Tuttavia, le invenzioni e i miti, per quanto bizzarri, quando mettono radici, diventano parte integrante delle forme di vita, delle idee e dei sentimenti delle persone. (…) Bisogna capire a quali esigenze obbedisce il bisogno di identità, perché esso sia inaggirabile in tutti i gruppi umani e negli stessi individui, perché abbia tale durata e perché si declini in molteplici forme, più o meno accettabili. Da epoche immemorabili tutte le comunità umane cercano di mantenere la loro coesione nello spazio e nel tempo mediante la separazione dei propri componenti dagli “altri”. La formazione del “noi” esige rigorosi meccanismi di esclusione più o meno conclamati e, generalmente, di attribuzione a se stessi di qualche primato o diritto. La xenofobia rappresenta il risvolto più rozzo ed elementare della compattezza di gruppi e comunità che si sentono o si vogliono diversi dagli altri e che intendono manifestare per suo tramite la propria determinazione ad essere se stesse. Essa è l´espressione di un forte bisogno di identità, spesso non negoziabile.
Sebbene si manifesti attraverso un´ampia gamma di sfumature, nella sua dinamica di inclusione/esclusione, l´identità è sempre intrinsecamente conflittuale. Realmente o simbolicamente, circoscrive chi è dentro una determinata area e respinge gli altri. Eppure, per non soffocare nel proprio isolamento, ciascuna società deve lasciare aperte alcune porte, prevedere dei meccanismi opposti e complementari di inclusione dell´alterità. Lo straniero è così, insieme, ponte verso l´alterità e corruttore della compattezza dei costumi di una determinata comunità.
Per orientarsi e capire, occorre distinguere tre tipi di identità. La prima si esprime in una specie di formula matematica “A=A”: l´italiano è italiano e basta, il rumeno è rumeno è basta. Tale definizione naturalistica, auto-referenziale e immutabile, è la più viscerale ed ottusa, incapace di accettare confronti tra la propria e le altre comunità, di cui non vede letteralmente i pregi, ma che anzi sminuisce e disprezza. Essa fa costantemente appello alle radici, quasi che gli uomini siano piante, legati al suolo in cui nascono o, come credevano gli ateniesi antichi, quasi siano sbucati dal suolo come funghi.
In generale, più una società diventa insicura di se stessa, più vengono meno i supporti laici della politica. In tal modo, più si produce una specie di malattia del ricambio sociale, che si materializza nel rifiuto di assorbire l´alterità, e più si proiettano sullo straniero, che magari proviene da popoli di antica civiltà, le immagini del selvaggio, del nemico pericoloso. Certo i vincoli di appartenenza sono necessari a ogni gruppo umano e a ogni individuo, ma non sono naturali (come potremmo sopravvivere se non sapessimo chi siamo?): sono stati costruiti e sono continuamente da costruire, perché l´identità è un cantiere aperto. Per questo la nostra identità non può più essere quella che auspicava Alessandro Manzoni, nel Marzo 1821, per l´Italia ancora da unire: “Una d´arme, di lingua, d´altare,/ Di memorie, di sangue e di cor”. Oggi alcuni di questi fattori non sono più richiesti, tranne la “lingua”, anche per motivi pratici, e, possibilmente, il “cor”, l´Intimo sentimento di appartenenza. La religione, soprattutto, non rappresenta più un fattore discriminante per ottenere la piena cittadinanza e non caratterizza (o non dovrebbe più caratterizzare) l´intera persona come soltanto “mussulmano” o “cristiano”.
Il secondo modello si basa sulla santificazione dell´esistente per cui, quello che si è divenuti attraverso tutta la storia ha valore positivo e merita di essere esaltato. Si pensi al Proletkult sovietico degli anni Venti: il proletario è buono, bravo, bello. Si dimenticano così le ferite, le umiliazioni, le forme di oppressione, le deformazioni che la storia ha prodotto sulle persone. Lo stesso è accaduto nel proto-femminismo: la donna è da santificare così come è divenuta. Anche qui si trascura quanto dicevano, in maniera opposta, Nietzsche e Adorno. Secondo Nietzsche, quando si va da una donna, non bisogna dimenticare la frusta. Al che Adorno, giustamente, osservava che la donna è già il risultato della frusta.
Il terzo tipo di identità, quello che preferisco e propongo, è rappresentato da un´identità simile ad una corda da intrecciare: più fili ci sono, più l´identità individuale e collettiva si esalta. Bisogna avere accortezza e pazienza politica nell´inserire nel tessuto sociale individui e gruppi finora esclusi, perché al di fuori dell´integrazione non esistono realisticamente altre strade praticabili. Integrazione non vuol dire assimilazione, rendere gli altri simili a noi, ma non vuol dire nemmeno lasciarli in ghetti, in zone prive di ogni nessun contatto con la popolazione locale. Dobbiamo ridurre lo strabismo, che diventa sempre più forte, tra l´idea che la globalizzazione sia un processo che cancella le differenze e l´esaltazione delle differenze stesse. Il grande paradosso odierno è, appunto, che quanto più il mondo tende ad allargarsi e ad integrarsi, tanto più sembra che a queste aperture si reagisca con chiusure dettate dalla paura e dall´egoismo, con la rinascita di piccole patrie.
“La prima si esprime in una specie di formula matematica “A=A”: l´italiano è italiano e basta, il rumeno è rumeno è basta”.
Qualcuno può spiegarlo ai giornalisti che continuano a scrivere “il rumeno”?
Secondo me bisognerà prima o poi ripensare il concetto di globalizzazione: non sono sicuro che sia possibile usarlo ancora nei termini in cui – sembra – lo usano molti, Bodei incluso.
In effetti c’è molto da ripensare, compresa l’opportunità di basarci ancora sullo ius sanguinis. Il concetto di integrazione descritto da Bodei nel terzo tipo di identità è perfetto, ma per prendere questa direzione è necessario che le persone nate in Italia possano dirsi italiane, come avviene per esempio in Francia.
scusa l’invasione. e solidarietà di blogger per la necessità di moderare. coraggio
http://blog.leiweb.it/marinaterragni/2011/06/22/13-febbraio-e-ora-del-bis-arancione/
Non è un po’ “vecchio” e superficiale l’approccio al tema da parte di Bodei?
Non so se sia un tentativo di rispondere alla Lega (ossessione diffusa, che fa commettere strafalcioni ed espone a figure un po’ così: vedi Benigni a Sanremo), o se dipenda anche dal suo essere sardo e dal dibattito in corso dalle nostre parti (di cui si può seguire qualcosa sul sito di Michela Murgia.
Ridurre tutto alla dicotomia “globalizzazione vs. particolarismo egoistico e xenofobo” è del tutto insufficiente a dar conto del problema dell’identità.
Inoltre non sarebbe più appropriato parlare di processi di identificazione?
E le riflessioni sui materiali mitologici, il mito tecnicizzato, la propaganda ecc. di Jesi, per es., o le posizioni teoriche di culturologi (alla Lotman, per capirci) e studiosi di politica vari possono essere bypassate senza soffermarcisi su nemmeno un attimo in termini problematici?
Non so, mi sembra che Bodei la faccia un po’ facile. Come altri del resto, troppo condizionati dal hic et nunc italico. Peccato.
PS Ho usato i tag html per i link, spero non ne venga fuori un macello. Nel caso, sorry.
E’ una questione di educazione. Bisogna vincere la paura e gli istinti bassi e rozzi dell’uomo per far fiorire la parte superiore (la scintilla divina, direbbe Epitteto). Ci avevano pensato già i Greci (quelli con la maiuscola) con Diogene il cinico e gli stoici (poi gli illuministi): da animali paurosi chiusi nel loro recinto gli uomini devono diventare “cittadini del mondo”. Ma come farlo su larga scala e a livello a planetario?
La sfida delle democrazie oggi è formare uomini e cittadini (promuovendo soprattutto la cultura umanistica), capaci di ragionare con la propria testa, di mettersi al posto degli altri per superare paure e istinti ancestrali. Come quelli del popolo di Pontida che, nella sua recente adunata, ripeteva “Padania libera”, facendo eco all’urlo roco del suo capo. E che mi faceva ricordare ben altre adunate, finite tragicamente.
Chiaro e distinto, ma insufficiente. Dopo aver giustamente considerato la relatività di fattori biologici o coscientemente ideologici, trascura di misurarsi con quello che è il reale fondamento del vissuto comunitario, cioè il senso comune. Una rappresentazione del reale che solo in parte si identifica con elementi coscienti, e si radica piuttosto in esperienze e valori condivisi a un livello di “pensiero implicito” (l’espressione è gramsciana). Questa lacuna non stupisce in un filosofo per altro meritevole di attenzione: è una costante, dall’illuminismo in poi, fatta salva la grande (e ancor oggi largamente ignorata) lezione vichiana.
Finchè si continua a contrapporre comunità a cittadinanza, come se la seconda fosse un superamento definitivo della prima, i rigurgiti di un comunitarismo incompreso (nelle forme deteriori del familismo amorale o del fascismo) continueranno a stupire il filosofo illuminista, condannato all’eterno ritorno del rimosso.
Cara Lipperini, vado in O.T.
Ho ascoltato la sua audiointervista a LaRepubblica sulla prima traccia.
Nel mio blog ho scritto una postilla, dove la cito.
Niente di tragico. O peggio di infamante.
Troverà anche le mie impressioni su AVE MARY della Murgia.
Con stima,
Melchisedec( e in radio Agostino :-))
Carissimo Melchisedec, ho letto e hai ragione. Nel commento però non mi riferivo in particolare a Lucca bensì all’opera intera di Ungaretti e a come potrebbe e forse dovrebbe essere studiata. Dico potrebbe perchè, purtroppo, non è vero che i ragazzi arrivano a lui con i programmi: per fare il solo esempio di mia figlia, che fa la maturità quest’anno, Ungaretti era fuori. Ed è un enorme peccato.
Ok, ho amplificato; mi ha messo fuori strada il link del quotidiano, che prometteva un commento della Lipperini sul testo proposto dal Ministero.
E quindi non avrei voluto perdermelo.
Su Ungaretti non affrontato a scuola: grave lacuna.
La responsabilità è anche nostra, dei prof: stiamo mesi su Manzoni e Leopardi.
Auguri per la maturanda.
🙂
Mi pare che la “chiusura all’altro” non sia necessariamente legata all’invenzione di tradizioni per ribadire l’appartenenza identitaria; piuttosto mi sembra un “male” che innerva la società nel suo insieme. Molte persone, che magari non condividono l’idea di appartenere ad un’enclave culturale definita, sentono comunque il bisogno di trincerarsi in ghetti “esclusivi” (le famigerate gated communities) perché il terrore del “contagio” tocca aspetti molto concreti dell’esistenza: lavoro (l’insistenza monomaniacale sui migranti che “rubano” lavoro ai locali) e spazio urbano (i quartieri degradati, i ghetti ecc.) sono due esempi.
.
Il panorama, quindi, è forse un po’ più articolato di come lo presenta Bodei, e richiede, in chiave critica, molta attenzione.
.
Giusto per fare un esempio, a parziale contestazione dell’analisi di Bodei e restando nel dominio delle idee: la prospettiva comunitarista (l’idea delle “piccole patrie”) è ripresa, oltre che dai teorici dell’identità, anche dagli apologeti dell’adesione volontaria, contrattuale alla comunità, che si rifanno a Nozick o al pensiero federale di Gianfranco Miglio.
Segnalo a proposito di identità/alterità “Vivere per addizione” di Carmine Abate, in cui l’autore fa il punto sulla sua condizione di arberesche di Calabria emigrato in Germania ed approdato in Trentino…