Tema del giorno: il presente. Stanno uscendo parecchi libri sull’argomento, oltre al citato Marc Augé (Che fine ha fatto il futuro? Dai nonluoghi al nontempo) e “presentificazione” è termine che circola con insistenza.
C’è un motivo, come è ovvio. Augè (consiglio caldamente il piccolo ma importantissimo saggio) scrive fra l’altro:
“Oggi sul pianeta regna un’ideologia del presente e del’evidenza che paralizza lo sforzo di pensare il presente come storia, un’ideologia impegnata a rendere obsoleti gli insegnamenti del passato, ma anche il desiderio di immaginare il futuro. Da uno o due decenni, il presente è diventato egemonico”.
E, più avanti:
“(le immagini televisive) ci racchiudono nello spazio. I satelliti fissi le rimandano da un punto del pianeta all’altro. I fatti dell’attualità sono rimbalzati, interpretati e rappresentati quasi simultaneamente in tutto il mondo. (…) Ogni giorno ci stanno sempre più accanto: ci eleggono a domicilio, si agganciano al nostro corpo, ci fanno comunicare con il mondo intero senza farci spostare, ci assuefanno a stare in una sorta di bozzolo tecnologico che ci mette al riparo da passato e futuro, quasi esistesse solo il presente”.
Lo sapevamo, d’accordo. Ma Augé dice anche un’altra cosa: tutto questo non diminuisce affatto, ma al contrario rischia di aumentare la disparità culturale:
“Se non si compiono cambiamenti rivoluzionari nel campo dell’istruzione, c’è il rischio che l’umanità di domani si divida tra un’aristocrazia del sapere e dell’intelligenza e una massa ogni giorno meno informata del valore della conoscenza. Questa disparità riprodurrà su scala più grande la disuguaglianza delle condizioni economiche. L’istruzione è la prima delle priorità”.
Ce n’è un’altra. Per Augè, l’evoluzione più rivoluzionaria a cui assistiamo è quella relativa all’idea di individuo: si spezzano delle catene, vero, ma subito se ne creano altre, perchè in fondo l’umanità teme la libertà:
“Si può avere un’idea di questo equilibrio precario se, per esempio, si presta attenzione agli attuali dibattiti sull’omosessualità. La lotta contro la determinazione in base al sesso (…) è in un certo senso la più rivoluzionaria possibile, ma oggi porta stranamente a una rivendicazione di istituzioni, come il matrimonio o la filiazione, apparentemente molto conformiste (…)”. E perchè? Perchè l’idea di individuo che oggi abbiamo è soprattutto mossa dalle esigenze economiche: “L’individuo è re, ma è un re nudo che tutti vogliono rivestire, nustrire, curare, abbellire, nella misura, in tutta la misura, dei suoi mezzi”.
Sganciarsi dal sistema dei consumi (peraltro fragile, e molto) e delineare un’utopia nuova (l’utopia dell’educazione) è la sfida di Augè. Una sfida bellissima, secondo me.
E si connette ad un altro tema, discusso in una delle colazioni di questa settimana con un vivacissimo gruppo che si ritrova dalle parti di via Asiago: quello della sconfitta. Il nostro paese, soprattutto, non la tollera più: chi perde (in politica, ma anche in altri ambiti, incluso quello editoriale, se ci pensate bene) viene cancellato. A volte a lungo, a volte per sempre: chi non vince al primo colpo non è più un cavallo su cui puntare. Il messaggio è terribile: e in quell’utopia dell’educazione andrebbe cancellato. Subito.
In base al “sasso”?
Corretto, cara Doriana, grazie.
Ieri, in autobus, facevo una riflessione.
Un ipotetico personaggio mio concittadino proveniente dagli anni ’70 (quindi, quasi quarant’anni fa, ormai) che si fosse trovato a transitare per quelle stesse strade, sbalzato nel futuro, che avrebbe pensato?
Pensiamo al Marty di ritorno al futuro, nel secondo film. Vedevamo il 2000 tutto luccicante e argentato, pieno di mirabilie, auto volanti, la corsa allo spazio…
Bene, quel personaggio dei ’70, invece, a una prima occhiata non avrebbe trovato grosse differenze, se non del grigiore in piu’: piu’ palazzi, spesso inutili e sempre molto brutti, piu’ auto, ma non poi cosi’ diverse, sempre attaccate al suolo e sempre a benzina, la stessa centrale A CARBONE vicino casa mia che inquinava gia’ allora e oggi di piu’, e la vogliono pure ampliare, persone vestite nello stesso modo, solo meno allegre e colorate, persino gli stessi sgangherati autobus o quasi, per non parlar dei treni, che sono addirittura peggiorati da allora, mediamente parlando!
Ecco, questo da’ il senso del mancato futuro. Per trovarlo, avrebbe dovuto sapere di internet e pc, di tv a schermi piatti e telefonini, di videogiochi, di fotocamere digitali e varie diavolerie e gadget.
Insomma, il progresso, lo sviluppo, la ricerca, fortemente indirizzati alll’elettronica, ai beni di consumo, al superfluo, e molto meno a migliorare il benessere generale e la qualita’ della vita delle persone. Con eccezioni, ovvio: internet stesso lo e’, tecniche diagnostiche come la tac, prime cose che mi vengono in mente. Ma il senso e’ quello, e si spiega forse anche la nostra perenne, sotterranea depressione.
Ah, per amor di completezza devo aggiungere che esiste tutto un mondo, quello delle nanotecnologie, della bioingegneria, che si muove in parallelo, ma al momento non e’ percepibile se non come inquietudine e paura e diffidenza, forse eccessive, forse giustificate, chissa’.
Magari poi quel futuro esplodera’ tutto insieme, come vorrebbero le teorie della singolarita’ tecnologica.
a proposito di presentificazione, la riforma Gelmini per l’Università non farà che solidificare la situazione di moltissimi ricercatori precari…al riguardo un mio nuovo blog sulla studiosa precaria, personaggio emblematico delle università nostrane oltre che progetto di attivismo creativo: http://www.theps09.blogspot.com
(Roz mo la la Lipperina tre trifola coi funghi de stagione:)
Io però nel post la relazione tra lotta per i diritti riconosciuti alle persone omosessuali, istituto familiare, e teribbile individualismo non l’ho capita.
Ho congetturato un giudizio con cui forse non sono d’accordo, ma non vorrei sbagliarmi. Ve prego la famiglia come cella der peccato, a borghesacci brutti ennò eh.
Ma magari mi sono sbagliata…
@Milena
Sto guardando una serie di telefilm molto bella: Life on Mars, che mi conferma come sia proprio quello televisivo il medium più interessante, dal punto di vista delle proposte narrative. Sei ti appassiona, come penso ti appassioni, da quello che hai scritto, questo tema, te la consiglio. È proprio la storia di un giovane poliziotto inglese di oggi, sbalzato indietro nel tempo, nel 1973, da un incidente. La cosa interessante è che anche nel 1973 è un poliziotto: dopo aver dato fuori da matto per un po’, alla fine si rassegna a riprendere il suo lavoro, trentacinque anni prima di quando l’aveva lasciato; la cosa che ho notato, e che può essere di qualche interesse a questo blog, è che il modo principale con il quale viene connotata la differente dimensione temporale, oltre, naturalmente, all’abissale differenza tecnologica, è la condizione femminile. La polizia britannica, come allora da noi, era un corpo esclusivamente maschile, e le pochissime ausiliarie servivano solo per avere a che fare con detenute e prigioniere di sesso femminile. Oltre a essere maschile, era, almeno nel racconto del telefilm, un corpo estremamente maschilista: il primo caso che il nostro si trova a affrontare è un caso di stupro-omicidio, e rimane sconvolto dai commenti dei colleghi durante l’autopsia. Tanto per dire, il nostro chiede un aiuto per il “profiling” del killer a un’ausiliaria, che, cosa ignota a tutti i colleghi, possedeva una laurea in psicologia. La psicologa-poliziotta viene dileggiata in ogni modo, la prima volta che prende la parola in una riunione del gruppo che dà la caccia al killer, e l’espressione dello straordinario attore che interpreta il poliziotto sbalzato nel tempo dà benissimo l’idea di come, in trentacinque anni, le cose là siano cambiate. Mi chiedevo, naturalmente, come un’analoga serie in Italia avrebbe potuto connotare in modo altrettanto efficace lo scarto culturale, e, francamente, non mi so rispondere. Soprattutto in un giorno in cui un Ministro della Giustizia che si dice “garantista” ha la purtroppo non inaudita faccia tosta di affermare, in una conferenza stampa, che un povero ragazzo morto massacrato in carcere in modi misteriosi è stato “vittima di una caduta accidentale”. Ci si sarebbe trovato benissimo, negli anni settanta, Alfano.
@Zauberei
Sono d’accordo con te: non vedo in che cosa possa consistere una rivendicazione di diritti e di uguaglianza se non nella rivendicazione di poter godere di diritti elementari, chiamiamoli pure piccolo-borghesi e conformisti, quale quello di poter prendere lo stesso autobus dei bianchi, o di poter fare la stessa loroe scuola figa, o di poter essere assunta per un posto di impiegata e di avere lo stesso stipendio di un collega anche se si è giovani spose, o di poter essere promossi a capoufficio o caporeparto indipendentemente dalle inclinazioni sessuali o dal genere, possibilmente senza dover passare per il letto di nessuno.
Non dimenticate che Augé ragiona da etnologo 🙂
La domanda che si pone non è di tipo sociologico: si chiede, infatti, come mai la battaglia per il superamento delle catene di una definizione (di genere, nel caso) si concentri molto spesso in richieste che comportano ulteriori vincoli. Giustissime in ambito di diritti civili, più sfumate in ambito antropologico.
Quello che lui dice, sostanzialmente è: l’individuo oggi sembra al centro di tutto. Non esiste altro che l’individuo. Ma il medesimo è sottoposto a gabbie di ogni sorta: economiche, e sociali. Quindi, nei fatti, non è vero che sia al centro dell’attenzione.
La differenza sta, sempre a suo parere – ma concordo in pieno – nella costruzione dell’utopia educativa. Che è tutt’altro che battaglia di retroguardia.
@vittorio
sono appassionata e anche scrittrice di fantascienza: ho sentito parlare, piuttosto bene, di life on mars. (che poi e’ una delle mie canzoni preferite di Bowie)
Vedro’ di darci un occhio appena possibile.
Direi che qui anche dal punto di vista delle serie televisive siamo mediamente messi ben peggio.
L’idea è bellissima Lipperilla – però oggi sono nel mio (consueto dirai te) mood bastian contrario, e quindi je do ggiù. Prometto che me passa.
1. L’utopia dell’educazione fa fico, perchè lui dici parla da etnologo. Se parlava da pedagogo invece faceva venì sonno. Nei campi della filosofia e della pedagogia sociale, l’è tutta un’utopia dell’educazione! Non parlano d’altro! Ha cominciato Freire pedagogista brasiliano che caldeggio per i tuoi stessi motivi (“La pedagogia degli oppressi” – 1968, ma sulla data erro di qualcosa.) – e poi essi hanno continuato con zelo, non di rado con onestà intellettuale. Pedagogia e Utopia vanno insieme insomma da molti anni. Questo non vuol dire che l’idea sia sbagliata, anzi secondo me l’idea è bellissima. Il problema è forse nella valutazione dei soggetti a cui si applica, c’è una evidente resistenza della concretezza che ti rimbalza indietro.
2.Io no so etnologa, e vabbè. Capisco. Dev’essere perchè nzo etnologa, e sono per giunta un’infingarda femmina post sessantottina, pessima borghesaccia individualista. Dev’essere. Ma ascrivere certi bisogni individuali, alla categoria del legaccio economico, non ti porta proprio da nessuna parte. O meglio – forse ti porta a quella resistenza della concretezza di cui sopra.
L’idea è fantastica. Ma io continuo ad avvertire qualcosa che non va.
Zaub, non prenderla sul personale.
Chiunque rilanci l’utopia è il benvenuto, a qualunque “casta” appartenga. In particolare, Augé sostiene che l’ignoranza cresce. In che senso? Nel senso che esiste uno scarto tra i saperi specialistici di chi sa e la cultura media di chi non sa. In altre parole, “quanto più la scienza progredisce, tanto meno viene condivisa”. E non perchè scompaiono i saperi tradizionali (scompaiono perchè non hanno “ragione di esistere”), ma perchè la loro perdita non significa automaticamente accesso a saperi nuovi.
Ovvero. “Le Monde” ha pubblicato i risultati di un’inchiesta della National Science Foundation, secondo i quali solo la metà degli americani sa che la terra ci mette un anno a fare un giro intorno al sole. Pazzesco, vero? Quello che Augé dice è quello che il marketing già sa: cresce la differenza tra élite e classi svantaggiate. Non solo economicamente, ma culturalmente.
Che questo sia il grande nodo da sciogliere è un fatto: lo dica Augé, lo dica Dan Brown o lo dica il primo che passa.
@Milena
Dagli un occhio. Se appena appena mastichi un po’ di inglese, potendo, guardalo in lingua originale (si chiama così proprio perché il poliziotto stava ascoltando la canzone su un cd, appena prima dell’incidente; e, quando si risveglia, il lettore di cd è diventato un gigantesco lettore di nastri stereo 8 che suona la stessa canzone).
Per quanto riguarda la nostra fiction televisiva, sono d’accordo con te. Le nostre non sono fiction, sono spot istituzionali della sacra triade Chiesa-Corpi di pubblica sicurezza-Magistratura. Il prete buono, il carabiniere buono, il magistrato buono… vabbè, sutor!, ne ultra crepidam.
Che l’ignoranza cresca lo dicono anche i tanti insegnanti impegnati ogni giorno a lottare contro di essa. Peccato che loro però siano guardati con sospetto se non sufficienza.
Che nel futuro (ormai presente) si vadano approfondendo e radicalizzando le disuguaglianze la fantascienza ce lo va dicendo da sempre, ma uno non può pretendere che Dick, per esempio, venga preso sul serio, anche se ci ha azzeccato su tutto. Epperò che si leggano con più attenzione Dick e a Ballard (tanto per tenermi ai classicissimi) secondo me sarebbe auspicabile, visto che ci dicono molto della realtà che stiamo vivendo.
Detto questo, devo anche esprimere un disagio sempre più forte che provo a scrivere in vari blog. Mio, ovviamente, non pretendo che sia generale e generalizzabile. E il disagio consiste in questo: esprimere un concetto senza poter, per questioni di spazio, di luogo e di mia incapacità, rendere conto della provenienza di quei concetti. Il rischio è quello di incappare in equivoci, tornare a chiarire, negoziare, pentirsi di aver negoziato, ecc. ecc. ecc.
Una delle grandi fatiche del parlare, e non solo dello scrivere, secondo me è quello di incappare continuamente in repertori retorici che andrebbero spacchettati di volta in volta, sennò si rischia di annaspare nel vuoto.
Proverò a chiarire quello che ho detto mentre scrivo le cose che mi sono venute in mente leggendo il post di Loredana, anche se mi riesce parecchio difficile.
D’accordo la presentificazione c’è, è un dato di fatto, quasi un luogo comune.
Vediamo come uscirne, però. Perché ho l’impressione che anche queste rappresentazioni insistite e monocordi della realtà possano rappresentare delle trappole mentali, un frame paralizzante, tanto per usare un termine qui largamente condiviso.
Augè vede nella pedagogia la strada maestra per uscire da questa crisi.
Oltre al termine Pedagogia, segnalo due altre parole grimaldello utilizzate da Aldo Schiavone in un libro secondo me molto bello e ottimista, addirittura galvanizzante: Storia e destino (La tecnica, la natura, la specie: esercizi di futuro e speranza per prepararsi al tempo che ci aspetta. Il manifesto di un nuovo umanesimo).
Allora, Schiavone è uno storico e in questo libro prende letteralmente di petto la vertigine che la scienza e la tecnologia ci ha aperto davanti e che offre nuove e impreviste possibilità al genere umano, a patto però di governarle. Ed ecco le due parole grimaldello che introduce Schiavone per uscire da questa empasse del presente (anche se questa impasse dipende da un vortice e non da una palude ma, come sia sia, il rischio è comunque quello dell’inabissamento): etica e politica.
Ora, quello che voglio dire è che le parole pedagogia, etica, politica, e tante altre, godono oggi di una pessima reputazione per cui il servirsene, anche solo a livello linguistico, provoca frizzi, lazzi e lanci di pomodoro.
E dunque non sono solo le cose a impastoiarci in questo melmoso ed eterno presente, ma pure quelli che io chiamo i repertori retorici che funzionano da veri e propri zombi mentali.
E allora smontare quei repertori è la prima cosa da fare, secondo me.
E questa cosa Loredana la va dicendo e scrivendo da tempo, volevo solo puntualizzarla qui.
Non voglio dare la croce per l’ennesima volta al postmoderno, che per me è una specie di brodo che dovrebbe essere filtrato una buona volta, per tenersi quello che di buono c’è e buttare via quello che fa male, però la cosa che mi viene in mente è che nella ricetta di quel brodo sia stato messo al bando, come il burro dalla cucina mediterranea, l’ingrediente ‘progetto’ e quanto la messa al bando di questa parola (e non solo della parola, ovviamente) sia stata responsabile, tra le altre cause, di quella che oggi si chiama presentificazione.
Per cui a me la parola utopia va benissimo in quanto incubatrice di idee, ma quanto mi piacerebbe tornare anche ad una ‘speranza progettuale’, praticabile mentalmente da subito e fattibile pure nell’immediato.
E in questo la politica dovrebbe giocare un ruolo fondamentale.
Chiudo con la frustrazione di non essere stata chiara neppure questa volta. Mi dispiace.
La gente non pensa. E’ troppo impegnata a procurarsi cose che non le servono a vantaggio di pochi e a prezzo gonfiato. Tutto qua. L’uomo non è affatto al centro di questa società che è alienata in quanto ha confuso la natura (semmai è esistita una sola, indiscutibile) natura colla sua cultura e considera immutabili leggi e schemi che essa stessa si è posta in tempi relativamente recenti. Per dire: c’è chi crede che l’economia sia una scienza nello stesso senso in cui lo è la biologia e che, coerentemente, affronta le crisi come si affronterebbe una brutta nevicata…Tutto ciò che abbiamo faticosamente creato per vivere meglio ha preso, per via della nostra mancanza di spirito critico, vita propria e ora un ipotetico alieno potrebbe facilmente convincersi osservandoci che siamo noi che lavoriamo per far funzionare i nostri aggegi (hardware, ma anche ideologie, preconcetti, pensieri unici e indiscutibili a dispetto dei fatti) e che essi non servono affatto per toglierci un po’ della fatica. Riflettiamo ad esempio sul fatto che, contrariamente ad ogni logica, oggi le macchine fanno molto di quello che facevamo un tempo ma la gente lavora ancora tutto il giorno e magari di più… Qualcuno ha visto quella vecchia puntata di Star Trek (“La Mela”, mi pare) dove una piccola comunità umana vive semplicemente e apparentemente senza grosse fatiche ma si impone moltissimi vincoli ed è di fatto governata dalla macchina-dio che permette un clima artificiale e che “pretende” di essere nutrita?
Caro Marco, te lo dico con dolce fermezza: il tuo post mi ha mandato fuori dai gangheri.
Quando diciamo ‘la gente’ diciamo “Tutti, meno io che parlo”, “Tutti, meno io e voi che mi ascoltate”, “Tutti, meno me e quelli che abitano nel mio palazzo… che leggono i libri che leggo io… che sono del mio stesso ceto… del mio stesso livello di istruzione… del mio stesso gruppo sanguigno….”? La gente… chi?
Stando così le cose, vorrei capire di cosa parliamo quando parliamo di pedagogia e capisco, però, come mai questa parola goda di tanto discredito: l’evangelizzazione delle masse amorfe? No, grazie.