POSTILLA AGLI STATI GENERALI: GIROLAMO DE MICHELE, IL FANTASTICO, IL CAMPO DI BATTAGLIA

In realtà la discussione sulle storie e sull’immaginazione continua. Nel male (quelle e quelli secondo i quali cosa sia fantastico e cosa no lo decidono loro e solo loro e guai  chi esplora altri mondi che non conoscono o non benedicono) e nel bene (quelle e quelli che, appunto, esplorano con generosità e senza barriere).
Nella seconda categoria rientra Girolamo De Michele, che offre alla discussione un suo intervento uscito qualche tempo fa su Euronomade.
Eccolo.

 

 

Il lungo articolo, o forse un breve saggio, di Eduardo Rialti Né realismo né fantasie. Allo scrittore piace farlo strano (“Il Foglio”, 2 maggio 2023) ha riaperto il dibattito sul fantastico letterario, piantando alcuni paletti che sarà difficile non tenere presente. Con queste note, che di quel “pezzo-mondo” presuppongono la lettura, cerco di motivare tre tesi: che la contrapposizione, detta alla bruta, fra realismo e fantastico è non solo letteraria, ma soprattutto politica; che termini o categorie come “magico”, “fantastico” “weird” non sono solo parole, ma indicano qualcosa che esiste davvero; che l’intero dibattito sul fantastico ha a che fare, piaccia o meno, con ciò che chiamiamo “natura”, e attraverso la messa in questione del nostro rapporto con la natura, con la sorte degli umani, e dei nostri familiari non umano o più che umani.

Camere separate

Fantastico e realistico, scrive Rialti, convivono da cinque-sei secoli in “camere separate”: il realistico, col correlato della perfezione stilistica (secondo il canone che Bembo elabora sulla scorta di Petrarca) rappresenta la linea dominante della tradizione culturale italiana, mentre il fantastico si esprime nelle eccezioni e alternative: come il romanzo epico-cavalleresco rinascimentale di Pulci, Boiardo, Ariosto e Tasso, da cui deriva un modello europeo che arriva (semplificando) fino a Tolkien e Ursula Le Guin – ma anche, a Margaret Atwood, Walter Tevis e Kazuo Ishiguro.

In effetti, bisognerebbe dire che il realismo, ossia la fede nella “realtà che si vede” come unica realtà esistente, nasce con la recinzione del mondo magico all’interno del letterario e la negazione della realtà del magico e del fantastico. I poemi cavallereschi di Boiardo e Ariosto rendevano accessibile al linguaggio delle corti una visione del mondo popolaresca nella quale, in uno spazio euclideo dove ogni luogo è equivalente ad un altro, si confondono il magico/sovrannaturale e il naturale, il lunare e il sublunare. Il mondo magico era, per i ceti popolari del XV secolo – non solo i contadini, ma anche il mondo delle strade e delle botteghe –, un mondo reale: questo sapere popolare, attraverso i versi dei poeti, affascina il mondo delle corti narrato in modo magistrale da Castiglione. Ma questo sapere delle botteghe, di cui era espressione una visione del mondo che accettava la presenza del magico e del fantastico, era al tempo stesso un sapere che rifiutava la mediazione della Chiesa nel rapporto uomo-Dio, e metteva in discussione le distinzioni sociali: quando l’invenzione della stampa ne rende possibile una diffusione ampia, questo sapere diventa un problema di ordine politico. Ricondurre il magico al letterario è un’operazione politica che va di pari passo con la repressione della stregoneria nei primi decenni del XVI secolo, in particolare nell’appennino tosco-emiliano: un’azione di pulizia politica che servirà ad affinare la macchina dell’Inquisizione, che dal 1540 passerà a reprimere le eresie, dalla lettura diretta del Testo Sacro a quella protestante. Un’operazione che Foucault coglierà, in Le parole e le cose, come il passaggio dal Medesimo all’Altro.

È sintomatico che Giambattista Pigna, plenipotenziario ed educatore del duca Alfonso II d’Este, che darà alle stampe un trattato sull’arte di governo (Il principe, 1561) scritto per legittimare il governo semi-assolutistico degli Este su Ferrara, pubblichi uno studio su I romanzi (1554), e in particolare quello d’Ariosto, nel quale attraverso una critica “strutturale” espelle gli aspetti magico-fantastici dal poema: l’Ippogrifo non era un fantastico cavallo volante, ma un emblema della gloria, così come il Palazzo d’Atlante non è un luogo magico, ma «un simbolo del giudicio corrotto: che è credere che quello, di che più siam privi, sia il vero fine à che inviar si dobbiamo. […] Può similmente pigliarsi la forma della corte, la cui servitù quantunque alcune volte in vano si spenda; ella nondimeno con la speranza, che in nulla si risolve, la brigata tratiene». Come non vedere non un’analogia, ma una medesima macchina normalizzatrice all’opera fra la teorizzazione di una governance che arriva a determinare la composizione qualitativa e quantitativa della popolazione, e la normalizzazione dei contenuti cui Pigna sottopone il testo dell’Orlando Furioso?

Si aggiunga che in quella medesima temperie, con la tendenziosa traduzione in latino della Poetica di Aristotele ad opera di Alessandro Pazzi (che tradisce una filologicamente corretta traduzione di Poliziano), si impone nei traduttori e commentatori una lettura classista della distinzione aristotelica fra “migliori” e “peggiori” dei personaggi della tragedia e della commedia, che viene fondata sulla gerarchia sociale fra nobili e umili, e non sul fare del personaggio sulla scena: un paradigma disciplinare che verrà seguito da Maggi, Robortello, Giraldi, Castelvetro, e lo stesso Pigna.

Infine: in quello steso periodo trova conclusione la questione del volgare, con l’affermazione del paradigma bembesco su quello, elegante ma ristretto alle corti, di Castiglione e quello, machiavelliano, che propugna il toscano delle strade e delle botteghe: dove l’elemento decisivo non è la purezza stilistica del toscano rifinito e smussato dal Bembo, ma l’essere questa lingua quella affermatasi nella scrittura diplomatica, nei dispacci di principi e ambasciatori – in altri termini, l’essere la lingua dell’esercizio del potere. Laddove l’esempio forse unico, ma di enorme rilevanza, del più brusco e scabro toscano popolare è la traduzione in volgare della Bibbia ad opera di Antonio Brucioli, machiavelliano, partecipe della congiura repubblicana degli Orti Oricellari del 1522, convertito nell’esilio francese al calvinismo e infine rifugiatosi a Venezia: una lingua che non può affermarsi, perché vengono a mancarne i parlanti.

Fare la genealogia dell’antitesi fra realismo e fantastico significa, allora, sapere per quale fantastico ci si batte quando lo si narra – e avere chiaro contro quale realismo si ingaggia la lotta.

Il guazzabuglio

Annota Rialti che Manzoni condanna, nella Lettera sul romanticismo del 1823, le fascinazioni del romanticismo europeo per «non so qual guazzabuglio di streghe, di spettri, un disordine sistematico, una ricerca stravagante, un’abiura in termini del senso comune». E aggiunge:

Un lettore freudiano non può mancare di notare che quello stesso “guazzabuglio” sarà poi impiegato da Manzoni stesso in un passo capitale per descrivere il cuore umano nei Promessi Sposi, e la parola sarà poi particolarmente cara al Gadda del Pasticciaccio – appunto – che fa collassare la struttura classica del romanzo e delle sue inchieste razionali in un senso d’opprimente orrore e decadimento cognitivo.

Se non ché la penna di Manzoni, nella propria esattezza, si fa beffe dell’inconscio e delle letture psicoanalizzanti. Il lemma “guazzabuglio” ricorre tre sole volte nei Promessi Sposi: nel citato cap. X (aperto da una annotazione sulla debolezza dell’animo umano nei giovani, quale è Gertrude), dove dal descrivere le passioni del principe padre si allarga a quella di Gertrude e del suo esaminatore, generalizzando quel «così fatto è questo guazzabuglio del cuore umano» che pare un sospiro dell’Autore; nel cap. XIV – «lasciando Renzo fare un guazzabuglio d’istanze e di rimproveri» –, dove rende lo straparlare e sragionare di Renzo offuscato dal vino; infine, in quella capitale pagina del cap. XXXIII – «Era un guazzabuglio di steli, che facevano a soverchiarsi l’uno con l’altro nell’aria, o a passarsi avanti, strisciando sul terreno, a rubarsi in somma il posto per ogni verso» – dov’è descritta quella che fu la vigna di Renzo abbandonata a se stessa per due anni, nella quale la natura si riprende il proprio spazio e si mostra, agli occhi di Manzoni, come un mostro polimorfo irriducibile ad ogni ordine e armonia. È la natura in sé, non antropizzata: non lo specchio dell’animo che è il paesaggio – dal ramo del lago di Como ai monti cui Lucia dà l’addio.

Se nella Lettera del ’23 “guazzabuglio” sembra essere il nome di quella figura della mitologia che è la “caccia selvaggia” – apparizione notturna di personaggi fantastici e animali che si rincorrono, foriera di sventura imminente –, e che Tasso, collocato non oltre, ma sul limite della normalizzazione del fantastico, nasconde con grande maestria nella descrizione della selva di Saron (Gerusalemme Liberata, XIII, 21); nel romanzo guazzabuglio fa segno, in ogni sua declinazione, al disordine spontaneo che deve essere governato dalla ragione: che si tratti della natura, del linguaggio, o delle passioni del cuore. Del gregge che necessita del pastore; o del vispo fanciullo del cap. XI, che governa un gregge di porcellini d’India (metafora dell’Autore che padroneggia la sfuggente pluralità della trama e dei personaggi romanzeschi).

Nella descrizione della rovina di quel «poderetto che [Renzo] faceva lavorare e lavorava egli stesso, quando il filatoio stava fermo», e che garantiva al buon massaio (quasi una prefigurazione dell’imprenditore di se stesso) una certa agiatezza a dispetto della crisi, Manzoni, che pure aveva orrore della schiavitù, si mostra un intellettuale europeo: per il quale la natura è materia inerte, che dev’essere governata e plasmata dalla razionalità occidentale. Che è ciò che Amitav Ghosh, nel suo pamphlet La maledizione della noce moscata, sbatte in faccia alla cultura occidentale con estrema durezza, rispetto al più “educato ma abbastanza duro” (così Wu Ming, nella bella conferenza in ricordo di Valerio Evangelisti) testo del 2016 La grande cecità: oltre alla riduzione in schiavitù delle popolazioni asiatiche e africane, allo sfruttamento capitalistico delle risorse naturali, al genocidio delle popolazioni indigene, gli europei hanno imposto la propria concezione moderna, razionalistica, della natura, su mondi e popoli che vedevano la natura – intesa sia come ambiente, sia come viventi non umani o più che umani – dotata di intenzione e coscienza, insomma animata, cioè dotata di anima. Sarà il caso di ricordare che Giordano Bruno l’ultimo grande pensatore, alle soglie della modernità, a sostenere il carattere animato della natura muore sul rogo in Campo de’ Fiori appena 21 anni prima dell’evento da cui prende le mosse il libro di Ghosh.

Perché gli europei fecero questo ai non europei? Perché, ci ricorda Ghosh, era il loro modo di fare. Perché sterminare indiscriminatamente era il loro modo di farsi la guerra, e come tale lo esportarono anche fuori dall’Europa. Lo aveva ricordato Montaigne, nel celebre (ma tutt’ora incompreso) capitolo sui selvaggi; e prima ancora lo aveva narrato Pulci, nel canto XXVII del Morgante maggiore, dov’è la descrizione del massacro di Saragozza, i cui abitanti sono sterminati «al fuoco e al taglio delle spade», sgozzati «alla franciosa» o arsi vivi – fino agli infanti arrostiti e mangiato a porchetta – dai soldati cristiani.

Si tratta allora non solo di liberare il fantastico dalle enclosures dei canoni letterari, ma di tornare a credere nel mondo magico e fantastico: di decolonizzare l’immaginario; di ri-affermare, facendo seguito a una celebre questione, che non solo i subalterni e le subalterne, ma che, «pur al cospetto di un’implacabile e apocalittica violenza», anche «i non umani possono e devono parlare».

La tragedia delle recinzioni

L’appello di Ghosh a rivendicare una visione animistica e vitalistica della natura, a fronte della catastrofe messa in moto dalla razionalità capitalistica, estrattiva, imperialistica, può sembrare una concessione all’irrazionalismo. Lo stesso Ghosh ne è consapevole; nondimeno, il narratore bengalese, nella sua proposta di una radicale provincializzazione della ratio europea e occidentale (fondata su una concezione meccanicistica della natura) è ben consapevole che se la colonizzazione delle terre e dell’immaginario è un prodotto della razionalità occidentale, è altrettanto vero che ci sono strumenti di questa razionalità che sono imprescindibili. È il razionalismo europeo ad aver fatto dell’essere umano un agente geologico capace di modificare l’ambiente, innescando il cambiamento climatico di cui ancora oggi fatichiamo ad essere consapevoli; nondimeno, senza gli strumenti forniti dalla scienza non saremmo in grado di misurare e comprendere l’alterazione climatica in atto. È la ratio colonizzatrice occidentale ad aver creato le condizioni per l’esplodere delle crisi pandemiche, alterando gli habitat e il clima del pianeta e antropizzando le aree intermedie fra gli insediamenti umani e gli ambienti nei quali si sviluppano i virus: ma senza la scienza bio-medica non avremmo conoscenza dell’esistenza dei virus, né disporremmo degli strumenti – a partire dai vaccini – per arginarne la virulenza e la diffusione.

È la contrapposizione netta fra “una” razionalità e un “irrazionalismo” ad essere errata: ce lo ricordava, fra i tanti, Primo Levi ne I sommersi e i salvati, stigmatizzando la nostra propensione verso le narrazioni storiche manichee. Ma non esiste “una” razionalità: come ogni cosa (a partire dalla soggettività e dalla natura), anche la razionalità è un campo di battaglia fra diversi razionalismi, alcuni dei quali strutturano quel campo avverso che chiamiamo ragione capitalistica o imperialistica. Non comprendere questo significa ricadere in certe teorie del disincanto, riedizione annacquata di un concetto weberiano già di per sé discutibile, che facendo coincidere ogni razionalità con una sola razionalità, fanno collassare tout court la razionalità col potere (a sua volta inteso come un monolito): col risultato di sdoganare in chiave “antagonista” ogni e qualsivoglia “irrazionalismo”.

La “tragedia delle recinzioni” di cui ci parla Ghosh è non solo un portato dell’imperialismo occidentale – concepire qualsivoglia terra non recintata come un elemento inerte e passivo rispetto alle brame del colonizzatore, da recintare e “civilizzare”. È anche una modalità di colonizzazione dell’immaginario, che porta a credere in un mondo disincantato, ossia libero dalla presenza del magico, dell’incanto: un territorio liscio ed euclideo, privo di anima e di entità non umane. Ma questo è solo un effetto prospettico: non si trova il magico-fantastico perché non lo si cerca, e non trovandolo si finisce per credere che sia inutile cercarlo. Salvo restare sorpresi ogni volta che – dal successo editoriale di Harry Potter all’ennesimo “ritorno” delle saghe di Tolkien, dagli spazi editoriali e televisivi del fantasy, su carta o video – il fantastico irrompe nel reale. A questa sorpresa la risposta è una fuga nell’elitario, attraverso l’accusa di “commercializzazione”: dopo tutto, le serie fantasy sono prodotte dalle grandi piattaforme dell’intrattenimento video, da Netflix a Disney+, fino a Hulu e Paramount+. Verrebbe voglia di ripetere la vecchia battuta di Lenin, non importa se apocrifa o meno, sulla borghesia che venderà persino la corda con cui sarà impiccata, e finirla lì. Fatto è che le grandi piattaforme producono serialità fantasy (e non solo) perché queste serie hanno un mercato; e hanno un mercato perché fanno segno a qualcosa: a quella perdita di presenza che De Martino collocava nell’intersezione fra la paura che il mondo possa finire, e l’attesa della fine di questo mondo; a quella “nostalgia di un futuro mancato” cui, secondo Mark Fisher, alludono le ucronie ambientate in un passato alternativo, da cui sorgono futuri altri che contraddicono la pretesa neoliberista che There Is No Alternative; a tutte quelle terre incognite, popolate da esseri sconosciuti, che si distendono al di là delle enclosures dell’immaginario.

La stranezza

C’è una scena, ne La stranezza di Roberto Andò, che dice tutto in una battuta: quando il vecchio Verga riceve in visita quel Pirandello che ha «in mente una stranezza che è diventata quasi un’ossessione», e gli dice: «Luigi mio, tu ti sei messo a camminare per una strada desolata, piena di pericoli; una strada che nessuno conosce, e non si sa neanche dove arriva. Tu hai messo una bomba sotto le fondamenta dell’edificio che noi con fatica abbiamo costruito: la realtà». Questa battuta (immaginaria ma realissima) è stata detta più o meno un secolo or sono: i Sei personaggi in cerca d’autore (ossia la “stranezza”) apparvero in scena nel 1921 al Teatro Valle – luogo oggi desolato, popolato da fantasmi e polvere, mentre concretissimi continuano ad essere i personaggi pirandelliani. In questa battuta è condensato il superamento del “realismo” e del “razionalismo” non solo nel campo estetico-letterario, ma in ogni campo del sapere contemporaneo: un secolo fa, per l’appunto. Basta dare una sbirciata a cosa ne è non solo della “realtà”, ma delle sue strutture basilari, lo spazio e il tempo, nella fisica dell’ultimo secolo. Nondimeno, la più coerente e cogente rappresentazione di ciò che resta del tempo nella relatività einsteniana è una serie fantascientifica che, per quanto complessa, è stata di grande successo: Dark. Che non per caso si apre con una celebre affermazione di Einstein: «Noi siamo convinti che il tempo sia qualcosa di lineare, qualcosa che procede in eterno, e in maniera del tutto uniforme, qualcosa di infinito. In realtà la distinzione fra passato, presente e futuro non è niente altro che un’illusione». Meno noto è che queste parole non furono pronunciate in una conferenza, o inserite in una silloge di aforismi: furono scritte in una lettera che Einstein, un mese prima di morire, indirizzò il 16 marzo 1955 alla sorella del suo amico Michele Angelo Besso, morto il giorno prima.

Come credere che i non umani, e la stessa natura, abbiano un’anima, siano dotati di intenzionalità e finalità? Ovviamente non possiamo saperlo: per farlo, dovremmo sapere cosa si prova ad essere un non umano. Che si tratti di un pipistrello, secondo il celebre saggio dal tono irritante di Nagel, o di un neanderthal, come argutamente argomenta Pievani, non possiamo saperlo: non possiamo immedesimarci in una mente dalla struttura simbolica aliena. In realtà, è probabile che non lo si possa fare neanche fra noi umani, a dispetto del comune DNA. Ma non è la risposta ad essere mancante: è la domanda ad essere sbagliata, tal quale è sbagliata la domanda sull’Intelligenza Artificiale come potenziale intelligenza umana, in grado di superare il test di Turing. Ma più del mediocre dibattito sull’A.I. popolato da giornalisti e opinionisti a digiuno dei fondamentali sul tema, converrebbe riprendere la discussione su coscienza e intenzionalità occorsa qualche tempo addietro tra i filosofi della mente – tra Chalmers e Dawkins, diciamo. Nella quale era infine emerso un punto fermo che si ritrova nella migliore fantascienza sul tema – dai robot e cloni di Ishiguro (Non lasciarmiKlara e il sole), Atwood (la trilogia del MaddAddam), Walter Tevis (Mockingbird), ma anche di Kubrick (A.I., realizzato dopo la sua scomparsa da Spielberg): considerare come umano ciò che suscita effetti, intenzionalità, affetti equiparabili a quelli umani. Anche perché qualsivoglia tentativo di restringere il campo dell’umano per tenere fuori dal recinto il non umano implica inevitabilmente una deportazione al di là delle recinzioni di condotte, attitudini, modi di essere dell’umano: il che non solo è una possibilità, ma è una realtà che si è data e si dà tutt’oggi, come sappiamo.

La domanda cui trovare una risposta diventa allora: cosa implica, in termini di una radicale cesura rispetto al nostro modo di abitare il mondo recintandolo con steccati e paletti, pensare il non umano come dotato di volontà e intenzione, capace di sorprendere la nostra ragione determinante e di suscitare emozioni che non siano il mero riflesso del nostro mondo interiore? Il minimo che si possa dire è che questo comporta una radicale provincializzazione della nostra visione del mondo: dopo tutto, solo noi occidentali siamo capaci di pensare la fine del mondo, ma incapaci di pensare la fine del capitalismo – e di stupirci di questa incapacità. Basta andarlo a chiedere a un bangladese, per dire.

Concludendo con Ghosh:

Una gran parte, se non la maggior parte, dell’umanità vive oggi come un tempo vivevano i colonialisti, considerando la terra un’entità inerte che esiste innanzitutto per essere sfruttata e depredata con l’aiuto della tecnologi e della scienza. Tuttavia, oggi anche le scienze sono costrette a fare i conti con le forze invisibili che si manifestano in eventi climatici di una violenza perturbante e senza precedenti. E man mano che s’intensificano, tali eventi rendono sempre più rilevanti voci che, pur al cospetto di un’implacabile, apocalittica violenza, continuano cocciutamente a sostenere che i non umani possono e devono parlare. Con il rafforzarsi della prospettiva di una catastrofe planetaria, è essenziale che queste voci non umane ritrovino un posto nelle nostre storie.

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