La cosa più difficile nel discorso sulle aree montane e sui borghi, insomma sulla strategia dell’abbandono, è dover spiegare tutte le volte che non si è luddisti, non si rimpiange un passato bucolico, ma si prova, al contrario, a pensare altro. Altro però che non sia il vecchio. Che non sia soltanto il modello guadagna-consuma e poi quando non si può più consumare pazienza, si passa a un’altra replica dello stesso meccanismo. Insomma, il modello capitalista, vagamente aggiornato (come scriveva Mark Fisher in Realismo capitalista, “nel capitalismo tutto ciò che è solido si dissolve nelle public relations”).
Perché non può più funzionare? Perché è cambiato il mondo, in verità, e perché forse dovremmo aver capito che quel modello non è solo dannoso ma, sulla lunga durata, inutile. Prendiamo i famigerati noccioleti.
Ormai due anni fa Alice Rohrwacher scrisse una lettera per sottolineare che i noccioleti nelle Marche sono un problema. “Quali saranno i contraccolpi di un cambiamento così radicale del paesaggio, quali saranno le conseguenze dei trattamenti, dei fertilizzanti, dei diserbanti di una coltura così intensiva? Sono state fatte le dovute valutazioni di impatto ambientale, sulla salute pubblica, sulle preziose falde acquifere, sulle relazioni socio-economiche, sul turismo, per trasformazioni di tali vastità? Sono state coinvolte le istituzioni competenti, le Università, i comitati, la società civile per valutare se questa trasformazione sia davvero positiva per il territorio nel suo insieme?”.
Non sembra. E anzi Loacher sta invitando a festeggiare la nuova coltura che, chissà, cambierà le Marche, alla faccia dello sfruttamento intensivo del terreno, del possibile uso di erbicidi, della mutazione del paesaggio. Vicenda, questa ultima, che a qualcuno potrà sembrare questione minore, ma non lo è affatto, e non per nostalgia, non perché si creda vanamente che tutto deve rimanere come noi lo ricordiamo, perché tutto è cambiato e cambierà ancora. Ma perché forse dovremmo essere abbastanza saggi, a questo punto della storia umana, per capire che abbiamo bisogno di bellezza, e che dovrebbe valere ancora sia l’idea che nullus locus sine Genio, sia la molto più recente affermazione del film I cento passi (“e allora invece della lotta politica, la coscienza di classe, tutte le manifestazioni e ‘ste fesserie bisognerebbe ricordare alla gente cos’è la bellezza, aiutare a riconoscerla, a difenderla”). In parole povere: i noccioleti con queste terre e questo paesaggio non c’entrano nulla, lo cambieranno irreversibilmente proprio dove c’è bisogno proprio di investire sulla bellezza, dopo quello che non sta accadendo nella non ricostruzione post-terremoto.
Il problema, però, è che gli abitanti della Marca terremotata sono pochi, contano poco e votano poco, e al massimo son buoni per un concerto di RisorgiMarche. Il problema è che quando si promuove il turismo si promuove quello di costa. Nella Marca maceratese, semmai si delira su idrovolanti e moto d’acqua in laghi pescosi e bellissimi. Quel territorio, dunque, può e deve essere cambiato a piacimento, e soprattutto per il guadagno di aziende che non sono la tua, direbbe Carrère, anzi non sono di nessuno perché sono multinazionali, e perché sputare nel piatto? E se qualcuno dirà, come sta dicendo, che si fanno troppe storie per quattro alberelli, bisognerà spiegare che la storia grande, quella che ci stanno raccontando ora e ci hanno raccontato prima, è tutta sbagliata.
Ah, qualcuno chiederà come si costruisce, questo modello alternativo. Domani provo a raccontarlo, per quanto posso io, umile osservatrice. Intanto però riporto una considerazione illuminante sulla nostra postura riguardo alla questione. David Foster Wallace nell’estate 1993 rilascia un’intervista a Larry McCaffery per la “Review of Contemporary Fiction”. Questa è l’ultima risposta. E, sì: è ora di essere i genitori, anche se abbiamo l’età per essere nonni, almeno io. Siamo i genitori di noi stessi, e non solo di noi stessi. Diventiamo adulti. Agiamo.
“sei alle superiori e i tuoi genitori partono e tu organizzi una festa. Chiami tutti i tuoi amici e metti su questo selvaggio, disgustoso, favoloso party, e per un po’ va benissimo, è sfrenato e liberatorio, l’autorità parentale se ne è andata, è spodestata, il gatto è via e i topi gozzovigliano nel dionisiaco. Ma poi il tempo passa e il party si fa sempre più chiassoso, e le droghe finiscono, e nessuno ha soldi per comprarne altre, e le cose cominciano a rompersi o rovesciarsi, e ci sono bruciature di sigaretta sul sofà, e tu sei il padrone di casa, è anche casa tua, così, pian piano, cominci a desiderare che i tuoi genitori tornino e ristabiliscano un po’ di ordine, cazzo… Non è una similitudine perfetta, ma è come mi sento, è come sento la mia generazione di scrittori e intellettuali o qualunque cosa siano, sento che sono le tre del mattino e il sofà è bruciacchiato e qualcuno ha vomitato nel portaombrelli e noi vorremmo che la baldoria finisse. L’opera di parricidio compiuta dai fondatori del postmoderno è stata importante, ma il parricidio genera orfani, e nessuna baldoria può compensare il fatto che gli scrittori della mia età sono stati orfani letterari negli anni della loro formazione. Stiamo sperando che i genitori tornino, e chiaramente questa voglia ci mette a disagio, voglio dire: c’è qualcosa che non va in noi? Cosa siamo, delle mezze seghe? Non sarà che abbiamo bisogno di autorità e paletti? E poi arriva il disagio più acuto, quando lentamente ci rendiamo conto che in realtà i genitori non torneranno più – e che noi dovremo essere i genitori.”
Acutissima la scelta di questa citazione, cara Loredana.
Una generazione di orfani insoddisfatti e impauriti rischia di scegliersi nuovi genitori, magari ben più autoritari e spietati di quelli che non ha conosciuto se non in racconti lontani e adeguatamente mitizzati… ciò che sta accadendo nella politica italiana è in tal senso illuminante.
Sì, perché la vera domanda è: come può una generazione di orfani diventare genitrice soprattutto se ha passato troppo tempo della propria vita nel “favoloso party” a consumare e dilapidare senza “costruire vita” (ovviamente in ampio senso metaforico, mi riferisco solo in parte al tema dell’infecondità che comunque rischia di entrarci anch’esso)? Come può recuperare modelli più costruttivi che non ha conosciuto o che ha cancellato? Anche qui il dibattito su neofascismo e denigrazione della Resistenza è illuminante, in tal senso.
Ho la vaga sensazione che in questo momento l’unica ribellione possibile coincida col concetto di distruzione, altra direzione che mi sembra abbiamo collettivamente imboccato con una certa decisione. Sembrando inesorabile solo perché, da non-genitori privi di modelli davvero positivi, non siamo neanche capaci di immaginarne o di sognarne una diversa.
Temo che Luciano Gallino avesse ragione da vendere quando bollò il “riflusso” degli anni Ottanta -con tutte le conseguenze successive, che ora sembrano essere arrivate al loro compimento- come una riuscitissima “lotta di classe” al contrario; non so però se ne avesse intuito in pieno la carica autodistruttiva. Forse sì, guardando al depauperamento e allo sfruttamento intensivo (umano e materiale) che porta con sé: i noccioleti, le superstrade, gli oleodotti, i deltaplani, mi sembra che parlino più delle sue accorate parole non ascoltate.