Nei suoi ultimi anni mio padre continuava a lavorare presso un’impresa di costruzioni: aveva solo il diploma di geometra, ma lo chiamavano “l’ingegnere” perché era gentile e competente (molto) e sorridente. Mi ero sposata da poco, e un giorno decisi di fargli una sorpresa: presi l’automobile e lo andai a trovare nel palazzo appena costruito dove presiedeva l’ufficio vendite.
Avevo 28 anni e cominciavo a sentire quell’aria di separazione, quella frattura imminente che molte persone intorno ai trent’anni provano quasi di colpo e con sgomento, come se i genitori cominciassero a essere figure sullo sfondo, sempre amate ma con l’inizio di una lontananza che un giorno sarebbe stata definitiva.
Per me e mio padre, era questione di pochi mesi, anche se non lo sapevamo.
Entrai infine nella stanza. Ricordo che avevo una giacca di velluto nera con passamanerie dorate intorno alle maniche, che amavo molto. Mio padre leggeva il giornale, mentre la sigaretta si consumava nel posacenere. Alzò la testa e fece uno dei suoi sorrisi più felici, proprio perché non si aspettava una visita all’improvviso da quella figlia troppo irrequieta per donare il suo tempo e sempre in giro a cercare chissà cosa.
Parlammo molto, quel pomeriggio: alcune cose le ho dimenticate, altre sono ancora con me, e con me restano.
Ma ho voglia di condividerne una, perché è il regalo più grande che mio padre mi abbia fatto. Non vengo da una famiglia benestante, e dunque il regalo non riguarda la stabilità economica o il raggiungere traguardi altissimi o posizioni di potere. Quel che mi disse allora, ma me lo aveva già detto altre volte, è di fare quello che mi faceva sentire bene. Male non fare, paura non avere, ripeteva sempre. Qualunque cosa tu scelga, diceva, fai in modo che non contrasti con quella che sei davvero. Non forzarti, diceva, non frequentare le persone per obbligo, non mentire né agli altri né a te stessa. Non censurare le tue idee sperando di ottenere qualcosa in cambio. Non sedere ai tavoli dove si bara (era un bravissimo giocatore di poker: sapeva bluffare, ma non ha mai barato). Non fare nulla di cui non saresti fiera.
Allora facevo sìsì con la testa, convinta ma infine distratta, come sempre, da mille cose: il fumo azzurrino della sigaretta, la notte di dicembre dietro la finestra, gli occhi grigio-azzurri di mio padre sempre un po’ malinconici dietro gli occhiali.
Però è ancora tutto qui, quasi quarant’anni dopo. Con forza maggiore, direi.
E in questo venerdì, riguardando le sue fotografie, mi viene da sussurrargli: “Forse puoi essere un po’ contento di me, sai? Sei uno dei non moltissimi che lo capirebbe, oggi, e che forse, da qualche parte, sa che io lo sono. Tanto”.
Buona Pasqua.