So che questo blog è in ritardo sui tempi previsti. Ma come è noto settembre è un mese fitto di appuntamenti, e viaggiando tra Mantova e Pordenone e Conversano non riuscirò a tornare ad aggiornarlo prima di fine mese. Per farmi perdonare, posto qui il mio articolo uscito su L’Espresso di inizio settembre. Era ed è sulla violenza contro le donne.
Contiamo, come sempre. Contiamo le donne morte ammazzate, mese dopo mese e anzi settimana dopo settimana. Sappiamo che al momento in cui scrivo questo articolo sono 75 nel 2023, e che i numeri ci dicono che una donna muore per mano di un uomo ogni tre giorni. Contiamo. Elenchiamo i nomi e l’età: Vera, 25 anni, impiccata in un casolare di Ramacca. Anna, 56, accoltellata a Piano di Sorrento, dopo due denunce al suo ex. Celine, 21, ancora per coltello, a Silandro. Mariella, 56, per pistola, a Troina. Sono solo le ultime storie.
Contiamo gli stupri. A Palermo, sette contro una, “cento cani sopra una gatta”. A Caivano, quindici contro due ragazzine, per mesi. Contiamo e continuiamo a stupirci e ad addolorarci e arrabbiarci e a leggere articoli ed editoriali dove si parla di pacchetti di norme. Abolizione della pornografia. Sicurezza. Si parla meno di educazione sentimentale, osteggiata da decenni in quanto induce pericolosamente al “gender”. Meno di centri antiviolenza e case rifugio. Meno di formazione delle forze dell’ordine che accolgono le denunce, nonché di giudici e magistrati.
Sappiamo che molti dei provvedimenti annunciati potrebbero servire (eppure abbiamo già leggi avanzate quanto poco applicabili per mancanza di strutture e personale), ma dovremmo anche sapere, e lo sappiamo, che serviranno fino a un certo punto. Perché se non si cambia la cultura di questo paese, nulla cambierà. Cambiare la cultura significa smettere di considerare le donne con rassegnata compiacenza sognando i tempi andati (anche se non lo si dice, o lo si fa dire a un generale spuntato dal nulla), e capire quanto le relazioni siano cambiate, e quanto potrebbero ancora cambiare, e in meglio, se ci si decidesse ad affrontare seriamente il discorso invece di spettacolarizzarlo (vedi la serie Netflix sul caso Depp-Heard).
Sappiamo, infine, che ci eravamo illuse: pensavamo di essere state capite e riconosciute, almeno nella maggior parte dei casi. Pensavamo che il cammino comune con gli uomini auspicato da Simone de Beauvoir nel 1949 fosse cosa fatta. Pensavamo che chi paragona le femministe a “moderne fattucchiere” fosse minoranza. Pensavamo che questo scavallare la soglia della violenza fosse frutto di un tempo diviso, di una generale condizione di frustrazione e rancore. Non è così o non è solo così. La sensazione di questi ultimi giorni è che il linciaggio della rete nei confronti degli stupratori e degli assassini non tocchi davvero la questione, e sia semmai rassicurante: loro sono diversi da noi. Sì, e no, perché l’immaginario è comune, e quell’immaginario non è stato ancora cambiato, ma solo scalfito, e quelle “comunità di dominio”, come le ha chiamate Alessandra Dino sul Manifesto, sono ancora intatte.
Per capirlo, bisogna andare molto indietro nel tempo, fino al giorno in cui Ulisse naufraga sulla spiaggia dei Feaci. Riscuotendosi dal torpore, ode “un chiasso di donne”, o “grida femminili” che gli “percuotono l’orecchio”. Qualche giorno fa una brillante scrittrice marchigiana, Lucia Tancredi, mi ha parlato dell’aiscrologia, ovvero il linguaggio osceno che nell’antichità greca veniva attribuito alla voce delle donne. Aristotele lo scrive chiaramente: “la voce acuta della donna è una prova delle sue inclinazioni malvagie, poiché le creature giuste e coraggiose (i leoni, i tori, i galli e gli uomini) hanno voci potenti e profonde”. Margaret Thatcher studiò a lungo per eliminare i toni alti dalla sua voce ed essere considerata autorevole (da “casalinga stridula” a “statista”, per le cronache). E riprendersi la voce, ricordava tempo fa la scrittrice polacca Aleksandra Lipczak a proposito delle proteste contro la criminalizzazione dell’aborto, è un atto rivoluzionario.
Bene, se si studiano i commenti che negli anni hanno espresso ostilità, se non odio, verso le donne autorevoli (Laura Boldrini, per fare un nome), in un numero notevolissimo di casi la critica riguardava il tono della voce. Troppo acuta, troppo stridula, troppo alta. C’è qualcosa di rivelatorio in questo fastidio, espresso non soltanto da odiatori abituali, ma da uomini colti e in carriera, come se la visibilità delle donne fosse stata accettata a malincuore, masticata amaramente e per convenienza, ma – almeno in larga parte – non davvero interiorizzata: e si dimentica che, piacciano o non piacciano le donne in questione, il ruolo pubblico che occupano dovrebbe essere riconosciuto. Di più: le donne di successo sono viste come coloro che sottraggono posizioni consolidate agli uomini. Neanche il tempo di riprendersi dal funerale di Michela Murgia ed è partita la schiera dei critici o degli scrittori o degli insegnanti che si affannavano a spiegare che non era una grande scrittrice e tanto meno un’intellettuale. A Vera Gheno un signore istruito e fin educato ha scritto che il genio femminile non è mai esistito, e che i bei tempi (ma questo lo ha scritto anche il plurivenduto generale) erano quelli in cui le donne stavano al posto loro.
Se si reagisce, il ruolo della vittima viene ribaltato: non sono le donne a essere screditate (o stuprate, o ammazzate), ma gli uomini. Che non possono più dire niente (si vedano le reazioni alle proteste delle ragazze contro il catcalling). Che vengono censurati. Che vengono emarginati. O la cui vita, come dicono i giovani stupratori di Palermo, è stata rovinata.
Ma non si dice mai che se esistono una sofferenza e una disillusione che vengono da lontano, all’interno di quel disagio si agita il rifiuto del cambiamento delle donne. Mancando una riflessione sulla crisi profonda delle relazioni, si va avanti, e quando non basta più il commento tossico su Facebook, si agisce nella vita reale. Specie se i modelli pubblici (politici, uomini dei media, intellettuali di ogni ordine e grado) manifestano verbalmente lo stesso disprezzo.
C’è un romanzo in libreria in questi giorni che riassume benissimo la questione. E’ Gli uomini di Sandra Newman (esce per Ponte alle Grazie, traduzione di Claudia Durastanti). Immagina che in un tardo pomeriggio tutti i maschi spariscano, inclusi i bambini, persino i feti nel ventre delle madri. All’inizio, frammisto al dolore, c’è un vergognoso sollievo: “Le voci dei maschi da vivi, aspre e profonde. Il suono di un uomo dall’altra parte della casa. Suoni mascolini sullo sfondo, dimentichi di sé. Tutto via. (…) Non ci sono abbastanza donne in questo comitato. Un altro consiglio di amministrazione senza donne. I diritti dei maschi: tutto via. (…) La messinscena della ragazza. Che fa una voce da bambina. Che indossa scarpe rasoterra per assicurarsi che lui sia più alto. La sensazione soffocata di sentirsi parlare sopra. Un uomo che usa il falsetto per prenderti in giro. (…) Lui che inizia a far paura. Lui che prende a pugni il muro. Testa bassa e lascia che passi. Ti vergogni di averlo provocato. Tutto via”.
Ma appunto c’è il dolore. I padri i fratelli gli amici i figli i compagni. Gli uomini che ci sono cari, e che non vogliamo perdere e che vogliamo al nostro fianco sulla stessa strada. Gli uomini che stanno dicendo non che “non sono come quelle bestie”, ma che il problema esiste. Il giovane cameriere che quest’estate, nelle Marche, ha usato il femminile sovraesteso per una tavolata di cinque donne e un uomo e lo ha dichiarato sorridendo, e senza affettazione.
Allora, come si fa? Si lavora sull’immaginario. Vedendo Barbie di Greta Gerwig l’ho trovato, all’inizio, didascalico fino allo sfinimento. Ma alla fine di questo agosto penso che invece va bene così, se ragazze e ragazzi trovano in blockbuster la rappresentazione di un modello diverso. Che sia un film su una bambola o che siano le parole di Margaret Atwood nel Racconto dell’ancella (“Ma se sei un uomo in un qualsiasi tempo futuro, e ce l’hai fatta sin qui, ti prego ricorda: non sarai mai soggetto alla tentazione del perdono, tu uomo, come lo sarà una donna”).
Va bene tutto, finché non si parlerà più di “chiasso di donne”, ma delle loro voci, e del loro essere nel mondo. Vive, e riconosciute.