Nell’estate del 1990 Rita Levi Montalcini querelò Vanity Fair, per un servizio corredato da una fotografia dove, oltre all’abito di Capucci con cui ritirò il Premio Nobel, spuntava, via fotomontaggio, la spalla nuda di una modella. Rita Levi Montalcini chiese un risarcimento danni “pari alla somma investita per pubblicizzare, a piena pagina, la rivista sui maggiori quotidiani”, somma che avrebbe devoluto all’Associazione italiana sclerosi multipla, da lei presieduta: “pur consapevole che ciò non potrà mai rappresentare un equo risarcimento del danno procuratomi con l’ ignobile fotomontaggio e le false citazioni, ciò mi offrirà l’opportunità di esprimere pubblicamente il mio sdegno”.
Non so come sia finita la vicenda. So però che ci si intigna sempre sugli abiti. E quanto era sciattona Simone de Beavoir, e quant’era bello, appunto, l’abito di Levi Montalcini al Nobel (“un abito di Capucci di velluto verde scurissimo e rosso prugna, dalle maniche color blu pavone e con un piccolo strascico, un modello che lei ha preteso di foggia settecentesca, il secolo dei lumi, e dunque il suo secolo preferito”). Per non parlare di Michelle Obama, che nel gennaio 2009, al momento di diventare una tutt’altro che canonica First Lady, riceve questa descrizione dai giornali italiani: “Una donna non più ragazza, e non particolarmente magra, affronta una cerimonia in mondovisione con vestito giallo sgargiante e spolverino di tessuto broccato, per di più dorato… Scarpe luccicanti e guanti verdi, ma di tonalità diverse. Un pasticcio, secondo alcuni esperti. Il broccato si usa di sera e comunque tende ad ingrassare, e pure il giallo non scherza”. Della sua visita romana si ricordano le decolletè pitonate col mezzo tacco.
Ora, non c’è niente di nuovo: l’abitudine a giudicare le donne da come si vestono è vecchia, vecchissima, probabilmente inestirpabile. E, no, leggete bene, o voi che siete pronte o pronti a dire che sto imponendo la tuta e la felpa col cappuccio, santi numi, non si tratta di quella che definite lagna. Ognuna si vesta come vuole. Ma quello che sto leggendo su Silvia Romano mi fa trasecolare.
Non parlo degli odiatori. Non parlo delle donne e degli uomini di destra o islamofobi o quel che vi pare a voi, e dell’oscenità (prevedibile) che stanno vomitando in questi giorni (come avvenne in precedenza per altre donne rapite e rilasciate: diciamo pure che tornare da un rapimento è cosa non gradita a certuni. I rapiti, li preferiscono morti: meglio ancora se rapite). Parlo di donne e uomini che conosco, di fama se non di persona, e che blaterano sul “sacco della spazzatura verde” indossato da questa ragazza al momento dell’arrivo in Italia, sulle domande sulla sua gravidanza, su tutto il soccorrevole, e comunque feroce, pettegolezzo con cui ci si sente in diritto di parlare di lei come se si stesse commentando Sanremo (e anche qui, perdonate, ma il taglia e cuci sui vestiti, e non sulle voci, non è proprio la mia tazza di tè: ma son gusti).
Mi auguro che la famiglia di Silvia Romano faccia come Rita Levi Montalcini. Mi auguravo che una pandemia avrebbe cambiato non dico il modo di essere delle persone, ma le priorità del nostro pensiero. Non so più cosa augurarmi: e forse ha ragione mia figlia quando dice che in certi casi occorre evocare il finale di Jay&Silent Bob…Fermate Hollywood, quando i protagonisti vanno a cercare uno per uno i loro odiatori su Internet. Sipario.
Per me è sempre una boccata di ossigeno leggere i suoi pensieri, mi creda.
A scoraggiarmi non sono solo i commenti ignobili, intrisi di una morbosità sessuofoba e sessista, sulla ragazza rilasciata (non cito il suo nome per una forma, forse stupida, di pudore, di rispetto).
Quelli te li aspetti, è matematico che la gente incattivita e impoverita, soprattutto nella mente e nell’anima, si scagli sul bersaglio di turno, specie se è donna, se è giovane, se ha scelto un percorso per molti inconcepibile, perché contempla un idealismo, forse ingenuo, ma di cui ben pochi sono capaci.
Mi deprimono i commenti di persone che conosco, persone care, che non possono fare a meno di lanciare strali di moralismo, di assumere un atteggiamento maternalista/paternalista, perché così credono di provare sollievo, di alleviare le ferite di una vita sospesa su un abisso di incertezza e NON per colpa di una cooperante rapita, ovvio.
Mi scuso se con questo commento sto deviando un po’ dal tema del suo post, anche se in qualche modo è connesso.
Si sposta l’attenzione sull’abito, su ciò che attiene alla sfera intima della persona, religione e sessualità, anziché focalizzarsi su interrogativi molto più importanti (secondo me), e un certo tipo di “giornalismo” ha una buona parte di colpa in questo.
Distrarre le menti con il chiacchiericcio malevolo, usare la foto di una ragazza sorridente uscita da un incubo come bersaglio sul quale scagliare veleno, illazioni, frustrazioni.
Che indossiamo un saio, un velo, un lungo abito di broccato o dei jeans stracciati o una minigonna… che importa?
Quello può essere solo un primo tratto distintivo, poi contano le nostre parole, le azioni, tutto ciò che ci qualifica come esseri pensanti, senzienti, agenti.
Essere prese sul serio è un diritto, non una bonaria concessione.
Un diritto da custodire, certo, ma vale per tutte e tutti.
Spaventoso, non saprei commentare altrimenti, senza un minimo di immaginazione. Stare lì a misurare tutto : l’ampiezza del mantello, del bacino, del sorriso di una ragazza, che potrebbe essere nostra figlia e che ha vissuto per tutto quel tempo un’altra vita, che noi non conosciamo, per nostra fortuna dico io, se non per avere ascoltato i racconti di qualche altro reduce, segnato e ferito per sempre. Non ci commuoviamo per lei, per la sua famiglia. Giudichiamo senza sapere nulla. Spaventoso.
Sipario. La mia gioia per la sua liberazione è durata poco.
Appena dopo averlo saputo, mi sono scollegata dai media per alcune ore. Alcune ore durante le quali il mio pensiero è tornato spesso a lei, all’angoscia che deve aver provato, al terrore, e infine al sollievo, alla commozione, alla difficoltà che tornare alla vita “normale” dopo 15 mesi di cattività si possano incotrare.
Non immaginavo, me ingenua.
Tornata sui social dopo la mia breve pausa, ho incontrato l’orrore. Sgomento, rabbia, tristezza, incredulità.
E a tutt’oggi non riesco a crederci. Non si parla d’altro. E se ne parla nel modo peggiore.
Un solo aspetto sembra ignorato da tutti e tutte: le “dichiarazioni” dell’interessata, riportate dai vari media, sono per l’appunto mediate.
A nessuno, a nessuna, sorge il dubbio che potrebbero essere distorte?
Il giornalismo ha una colpa evidente e imperdonabile: alimenta la bestia.
Tornando all’abito. E’ orribilmente trasversale. E’ terribile questa attenzione sull’apparenza, che distoglie qualsiasi risorsa dalla sostanza.
Anche chi tenta di difenderla cade nello stesso tranello, aderisce alle stesse logiche.
Nessuna voce fuori dal coro. Nessun* che dica che la sua voce non si sente; è tutto un clamore, è tutto un berciare.
E lei, muta. Zittita.
Vorrei ascoltarla. Vorrei sentirla parlare, senza ribattere nulla, senza rimbalzare né amplificare.
L’unica voce che vorrei sentire, eventualmente, è la sua.
In mancanza, un melodioso, rispettoso, doveroso silenzio.
Mi rattrista, mi sento impotente.
Appena liberata, sono stato inondato su Facebook di post inneggianti alla sua liberazione e di contentezza… mi sono detto: “Beh, il lockdown ci ha fatto capire davvero il valore della Libertà [permettetemi la maiuscola], siamo davvero cresciuti, che bello!”. Poi spengo i Social e, distrattamente, la sera guardo una delle edizioni del tg di SkyTg24 che si preoccupa di descrivere l’abbigliamento di Silvia alla sua discesa dall’aereo che l’ha riportata a casa e specifica la sua conversione all’Islam. Mi dico: addio mondo. Riaccendo i Social il giorno dopo ed è tutto un fluire di odio sessuofobo e razzismo di vario genere, anche se c’era un ben nutrito gruppo che la difendeva a spada tratta. Ma a colpirmi sono stati i silenzi, le assenze di like anche sui post più argomentati favorevoli alla ragazza, in assoluto la casistica maggiore tra i miei amici di Fb (che, tengo a precisare, nella più parte dei casi conosco anche di persona o con i quali ho contatti extra-Social): questo mi ha inquietato molto di più perché essi rappresentano la nuova maggioranza silenziosa che sarà la complice più attiva del prossimo dittatore di turno e delle sue nefandezze (oltre che delle nefandezze attuali decise democraticamente).
Mi Stupisce sempre lo spazio che viene lasciato ai cosidetti odiatori. come se non ci fossero sempre stati ( ovunque).davvero non mi capacito del perché onorarli di tanta evidenza. Qui addirittura citando King si arriva ad evocare la loro uccisione “casa per casa”. E questo ci da la cifra di quanto oramai tutti quant,i anche la parte cosiddetta intellettuale del paese sia schiacciata su questo piatto orizzonte. Tutta la realtà ha lo spessore di un telefonino. E D’altronde si sa: l’odio genera odio. Certo va riconosciuto che la vicenda di questa ragazza rapita ha in se qualcosa di veramente osceno, scandaloso, capace di generare un cortocircuito esplosivo nel già stressato immaginario collettivo. Attenzione dico “scandaloso nel senso evangelico della parola: pietra ‘d’inciampo. Perché l’immagine di Silvia sorridente col Jihab ha davvero qualcosa di tremendamente squilibrante per tutti. Per le femministe per i cattolici per gli atei, per tutti gli agguerriti armamentari intellettuali. Le reazioni viscerali si sprecano forse perché è impossibile ( almeno per ora) da razionalizzare . probabilmente anche per al-shabaab.
Alla fine sarebbe comunque bello immaginare il teatro stracolmo e sul palco davanti alla platea, i rapitori le femministe i sovranisti i giornalisti i vescovi i progressisti tutti insieme tenendosi per mano, fare un inchino piegando la testa fino alle ginocchia, mentre Silvia dall’alto trattenuta da un invisibile cavo d’acciaio, lascia cadere foglie verdi d’ortica e piccole miccette esplosive. Sipario ( ma era già chiuso)
ciao,k.