Ieri sera ho rivisto Diaz, il film di Daniele Vicari. Non volevo farmi del male, anche se me ne sono fatta, ma volevo ricordare meglio, e usare una narrazione oltre alle decine di podcast e di libri e di storie di questi giorni. Tra le cose che ho ricordato, intanto, è che quel film è stato girato in Romania. Come ha detto di recente Vicari:
«Il film, in Italia, non ha trovato nessuna forma di finanziamento. Nessuna major ha accettato il copione. Domenico Procacci, il produttore, ha dovuto cercare contatti all’estero per recuperare i soldi. Alla fine abbiamo trovato investitori in Francia e in Romania. Solo a riprese già iniziate ci arrivò un piccolo, piccolissimo finanziamento del Mibact: aiutò un po’ a radicare la pellicola in Italia.
Il film fu quasi interamente girato in Romania. A Genova, d’altro canto, ci è stato impedito di fare i sopralluoghi nella stessa scuola Diaz. Abbiamo provato a girare qualche ripresa, verso la fine, a Genova: è successo che ci hanno sequestrato l’intero parco macchine del film. Sì, è stato un percorso accidentato che solo grazie al grosso impegno di Fandango siamo riusciti a terminare».
E’ che non mi capacito, come tutti o quasi, credo, di quel che è avvenuto alla scuola Diaz e a Bolzaneto. Non mi capacito del fatto che alcuni manifestanti siano stati condannati per saccheggio e che Gianni De Gennaro, allora capo della polizia, sia stato non solo assolto ma sia stato nominato sottosegretario alla Presidenza del Consiglio di Ministri sotto il governo Monti e poi abbia fatto carriera in Finmeccanica. Il resto è qui, potete non capacitarvi anche voi. Per inciso, una delle interviste di cui sono più fiera a Fahrenheit fu a Roberto Settembre, giudice di Corte d’Appello nel processo per Bolzaneto, per il suo Gridavano e piangevano. Che vi consiglio di leggere, se riuscite.
Perché continuo a tornare su quelle giornate di vent’anni fa? Perché c’è una ferita dentro il nostro paese e, certo, dentro di me, che risale, come detto, al 12 maggio 1977, ma era viva anche prima.
A vent’anni ero al Partito radicale. Collaboravo con la radio, ma prima ancora ero la giovanissima direttrice dell’agenzia di stampa, Notizie radicali. Dal 1976 al 1978 sono stata nella segreteria nazionale con Adelaide Aglietta. Bene, un pomeriggio, con un gruppo di donne, andai a manifestare sotto il Senato, per il diritto all’interruzione di gravidanza. Eravamo poche, con i cartelli appesi al collo e pance finte: giornali appallottolati infilati sotto il maglione. Una provocazione, se volete, ma i radicali vivevano di gesti anche provocatori perché altro non avevamo. Non le armi. Non i cortei. Non la violenza. Avvenne che venimmo caricate, e io mi presi il mio bel pestaggio a calci e manganellate. C’è una tecnica precisa che si usa nella nonviolenza quando si viene aggrediti (dalla polizia, da destra, da sinistra: ne prendevamo un po’ da tutti): ci si siede in terra a gambe incrociate e si intrecciano le braccia sopra la nuca. Per proteggere la testa e per dichiarare di essere inermi. In più, avevamo anche le pance finte, che molti scambiarono per vere, e infatti ricordo che i passanti urlavano “sono incinte”. Amen, non servì. Fu un pestaggio leggero, vorrei dire: un paio di colpi sulle braccia. Il dolore maggiore fu alle caviglie, perché mi ci finì sopra un ragazzo che avevano letteralmente sollevato da terra e lanciato contro di noi.
E’ passato. Non è passato. Perché si rompe qualcosa e quel qualcosa è ancora rotto. E soprattutto è la schizofrenia che ti resta addosso a dolere. Da una parte gli agenti di scorta andati in briciole con Falcone e Borsellino. Dall’altra quelli che hanno sollevato il manganello. All’epoca, però, c’era Franco Fedeli. Nell’epoca in cui ero giovane. Lo ricorda Antonio Iannello qui:
“Franco Fedeli era un partigiano. Dopo la resistenza si mise a fare il giornalista. Fu anche il direttore, durante gli anni sessanta, di una rivista che si chiamava Ordine Pubblico; era una delle riviste che si occupavano dell’allora corpo delle guardie di pubblica sicurezza, cioè della polizia nel periodo in cui aveva un ordinamento militare. Fedeli trasformò quella rivista da bollettino di una corporazione a luogo di elaborazione di alti contenuti politici, la cui riflessione partiva dalla polizia ma in realtà parlava del grado di democrazia reale del nostro paese. Migliaia di poliziotti durante la seconda metà degli anni sessanta e durante tutti gli anni settanta iniziarono prima ad inviare lettere al giornale di Fedeli per raccontare i modi in cui venivano tiranneggiati dai superiori, poi ad intervenire più decisamente nel dibattito sul significato della “repressione”, sul ruolo della polizia in un paese democratico, sul lavoro del poliziotto all’interno della cornice costituzionale in mezzo agli altri lavoratori. Se si leggono i comunicati dei poliziotti di quel periodo si nota che, pur partendo da posizioni in parte corporative e di difesa della categoria da vessazioni di ogni genere, si arriva anche ad analisi e rivendicazioni che vanno oltre le mura della caserma e che si allargano alla società e alla città”.
Il lungo articolo di Iannello spiega molto bene cosa sia successo dopo. Questa intervista a Daniele Vicari a Open inserisce un ulteriore tassello:
«La questione è più ampia e riguarda uno Stato di diritto. Se può essere sospeso per mano di dirigenti della polizia o di poliziotti singoli, resta una domanda sospesa, senza risposta da parte delle istituzioni. Per questo non si è mai ricucito lo strappo con i cittadini. Ha ragione chi parla di Stato di eccezione: ci siamo abituati a questo andazzo, anche nella gestione dell’immigrazione.
Applichiamo regole fuori dallo Stato di diritto e viviamo una sorta di abuso continuo, costante. Genova è l’inizio di questa pericolosa deriva che va tenuta sotto osservazione. Per fortuna ci sono dei presidi nella democrazia che continuano a tenere alta l’attenzione su questi fatti e riescono a farne scaturire un dibattito pubblico. Ma è un dibattito sempre imbarazzato: non abbiamo il coraggio di parlare della sospensione dello Stato di diritto: quando è giusto si può sospendere, pensano in molti. Ed è un problema».
Il problema, fra i molti, è che criminalizzare chi lavora in polizia è sbagliato e pericoloso. Il problema, fra i molti, è che i responsabili di quel che è avvenuto sono rimasti impuniti. Il problema, fra i molti, è che anno dopo anno siamo qui a rintuzzare quelli che commentano su Facebook con la parola “estintore” e a postare filmati. Mentre, come dice Michele Rech, Zerocalcare:
“‘L’unica cosa che manca nel coro unanime del ricordo quei giorni vorticosi, è la voce di chi ha avuto davvero la vita inghiottita da quel vortice: chi per quelle giornate sta ancora in galera come L., chi ha i lavorativi come J., chi prova a rifarsi una vita in un altro paese come V. ma che lo stato italiano cerca ostinatamente di estradare e riportare qui a scontare oltre dieci anni di galera. E chi è stato ammazzato per strada come Carlo Giuliani.”
Vorrei che ci fosse un altro Franco Fedeli. Vorrei che si potesse parlare di questo. Vorrei che il ricordo dei manganelli rimanesse un ricordo (ma così non è: perché c’è stato altro, nel frattempo: Stefano Cucchi, Federico Aldrovandi, Santa Maria Capua Vetere. Per esempio. Vorrei che Di Gennaro restituisse l’onorificenza di Cavaliere della Repubblica. A lui non costerebbe nulla, per tutti sarebbe esemplare. Questo vorrei, questo dovrebbe accadere. Intanto, si ricorda, per forza.
Per capire dove va l’Europa (e dove potrebbe andare l’Italia se vincessero quelle forze politiche che guardano a Visengràd), Orbàn indice un referendum sulla famosa Legge anti-propaganda LGBT ai minori. Ovvero: la democrazia (truccata) contro la libertà e lo Stato di Diritto. Mentre in Repubblica Ceca sta per entrare in Costituzione il diritto soggettivo di difesa personale; ovvero, lo sceriffato elevato a Valore Costituzionale. Come negli States delle stragi private. Nel frattempo naufraga forse definitivamente il DDL Zan lasciando impuniti odiatori e violenti, ma soprattutto i mandanti (verso i quali non si vuol neanche più tentare un’opera di educazione preventiva!). In questo clima purtroppo Genova appare una naturalissima quanto pericolosissima involuzione dello Stato di Diritto verso il Diritto del più Forte.