Cosa posso dire di più sull’ultimo femminicidio, quello di Cesena? Cosa posso dire più di quanto, per esempio, ha scritto Femminismo a Sud? E cosa dire sulla donna assassinata nel ferrarese, di cui quasi nessuno ha scritto? Quel che posso dire è che la settimana prossima ci sarà un’altra e credo operativa riunione del gruppo che ha lavorato sulla violenza, e spero che ci siano notizie e fatti da fornire a tutte a tutti.
Intanto.
Mi ha colpito una conversazione via mail. Riguardava la questione della visibilità delle scrittrici e critiche letterarie. Mi colpisce come, in alcune e alcuni, la questione medesima venga percepita come un puntiglio da quota rosa. Allora, prima di tornare con una serie di interviste e dati sull’argomento, posto un articolo. E’ di Meg Wolitzer per il New York Times. Lo ha tradotto Matteo Colombo per D. Eccolo.
Se La trama del matrimonio di Jeffrey Eugenides fosse stato scritto da una donna, ma avesse avuto lo stesso titolo e la stessa copertina, avrebbe ricevuto la stessa attenzione da parte del mondo letterario serio? Oppure questo romanzo (che personalmente ho amato) sarebbe stato relegato alla «narrativa femminile», quell’affollato scaffale inferiore sul quale spesso finiscono i libri incentrati sui rapporti affettivi e sulla vita interiore delle donne? Vero è che La trama del matrimonio, il primo romanzo di Eugenides dopo il premio Pulitzer per Middlesex, era destinato a suscitare enorme attenzione indipendentemente dalla materia trattata, ma la presenza di una protagonista femminile, la grazia della narrazione, il tono a tratti nostalgico e la rilevanza data alle relazioni affettive non fanno che sottolineare come molti libri di qualità scritti da donne e che parlano di donne non riescano mai a sfuggire alla “narrativa femminile” e a fare il salto sullo scaffale più alto, dove certi libri, perlopiù scritti da uomini (e sì, anche da qualche donna, ma di questo parleremo più avanti) godono di grande visibilità e ammirazione.
L’argomento è spinoso. Tirare in ballo la questione femminile – nel senso di narrativa femminile – è un po’ come parlare del debito di stato durante una cena. C’è chi si infastidisce, ritenendolo un argomento di cui si è parlato troppo e in modo inesatto, mentre alcuni lo considerano cruciale.
Poco tempo fa, a un evento sociale, scoprendo che ero una scrittrice un ospite mi ha chiesto: «Potrei aver letto qualcosa di suo?» Gli ho declinato le mie generalità: il nome non gli diceva nulla, il che va benissimo, non sono così famosa. Poi, dietro sua richiesta, gli ho descritto i miei romanzi. «Mah, contemporanei, direi. Alcuni parlano di matrimonio. Di famiglia. Sesso. Desiderio. Genitori e figli.» Trascorsi alcuni istanti d’imbarazzo, il signore ha chiamato sua moglie, annunciandomi che era con lei, «che quel genere di libri li legge», che avrei dovuto parlare. Se ripenso a quell’incontro, lo vedo come un’occasione persa. Alla domanda «Potrei aver letto qualcosa di suo?», molte scrittrici sarebbero tentate di rispondere: «In un mondo più giusto».
La verità è che le donne che scrivono letteratura devono spesso vedersela con un mondo ingiusto, e questo nonostante nelle principali città americane i guadagni delle giovani single stiano superando quelli dei maschi, e il numero complessivo delle laureate negli Usa sia superiore a quello dei laureati. Come si evince dal secondo resoconto statistico annuale della VIDA, un’organizzazione letteraria femminile, nelle pubblicazioni più prestigiose le donne sono incredibilmente bistrattate, sia come scrittrici che come critiche. Di tutti gli autori recensiti dalle testate monitorate per lo studio, quasi tre quarti erano uomini. Non stupisce che, quando si parla degli autori attualmente più rilevanti, quelli che generano fermento e dibattiti e vengono letti sia dagli uomini che dalle donne, quasi sempre si parli di maschi.
Succede in continuazione, e la colpa non è soltanto degli sconosciuti alle feste, o dei tanti librai che non si fanno problemi a definire romanzi interessanti e complessi scritti da donne «narrativa femminile», quasi che gli uomini dovessero starne alla larga. Perfino gli editori possono contribuire a questo processo di segregazione e di vaga, benché involontaria, umiliazione. Pensiamo alle copertine di certi romanzi scritti da donne. Panni stesi ad asciugare. Una bambina in un campo di fiori. Un paio di scarpe su una spiaggia. Un dondolo vuoto nella veranda di una vecchia casa gialla. Paragoniamolo all’uso del lettering sulla copertina del romanzo di Chad Harbach L’arte di vivere in difesa, o alle scritte giganti su quella delle Correzioni di Franzen. Copertine del genere dicono al lettore: «Questo libro è un evento».
Ho studiato semiotica alla Brown University all’apice del decostruzionismo, nello stesso periodo in cui è ambientato il romanzo di Eugenides (insieme, frequentammo lo stesso laboratorio di scrittura), ma non ho certo bisogno di ricordare cosa siano i significanti per capire che, proprio come i blocchi di maiuscole giganti, anche le illustrazioni di copertina femminili sono un codice. Immagini che evocano una sorta di nostalgia della povertà alla Walker Evans o offrono ovattati scorci di vita domestica, puntano alle donne con la stessa determinazione di uno spot degli integratori per l’osteoporosi. Tanto varrebbe appiccicare su queste copertine l’adesivo di una strega, e la scritta: «Alla larga, uomini! Tornate a leggere Cormac McCarthy!»
A volte mi domando se anche la lunghezza di un libro non segnali al lettore, più o meno intenzionalmente, la supposta importanza di un romanzo. Scrittori che hanno acquisito un alto profilo letterario come David Foster Wallace, Haruki Murakami e William T. Vollmann hanno tutti pubblicato libri lunghissimi. Con alcune eccezioni degne di nota, dal Taccuino d’oro di Doris Lessing non si contano molti “fermaporte” famosi pubblicati da donne. È il mercato che, sottilmente e paradossalmente, anche nell’era della soglia di attenzione breve, suggerisce all’orecchio di alcuni maschi «Ma sì, bello, scrivi pure quanto vuoi, mettiti lì e butta giù ogni singolo pensiero che hai sull’America», oppure sono le donne che istintivamente si impongono (o si lasciano imporre) vincoli di spazio più severi, creando romanzi compatti e armoniosi che lettori e gruppi di lettura possano trovare accessibili? O non è che semplicemente non hanno l’ossessione per le dimensioni, né in un senso, né nell’altro? Tutto questo non per dire che i megalibri siano per forza superiori. Nella loro prolissità, anzi, è forse più facile che siano inferiori. Certo, però, fanno più rumore.
La mia impressione è che, come la maggior parte degli uomini, la maggior parte delle donne i libri li scriva lunghi quanto vuole, anche se spesso non ottengono lo stesso riconoscimento. Negli ultimi anni, autori come Ian McEwan e Julian Barnes hanno scritto libri molto brevi, molto apprezzati dalla critica e molto letti. Ma se di questi tempi una donna scrive qualcosa di breve, specie se parla di una donna, il suo lavoro corre il rischio di essere considerato minore. («Asciutto» è il complimento più frequente.) Se, per contro, una donna scrive un mattone infarcito di libere associazioni mentali sulla vita e l’amore e la gravidanza e la guerra, infilandoci battute e ricette e magari pure un romanzo nel romanzo, insomma, tutto ciò che può contenere una membrana infinitamente elastica, rischia di essere tacciata di indisciplina e autoindulgenza.
Julia Glass, che nel 2002 ha vinto il National Book Award con il romanzo Tre volte giugno, ha affermato: «Molti lettori mi chiedono come mai io scriva così spesso adottando un punto di vista maschile. Qualche ipotesi ce l’ho, ma la verità è che non lo so. Non scrivo i miei libri pensando di approfittare del pubblico maschile, ma è vero che il punto di vista può migliorare l’accoglienza che ricevono. Credo che gli uomini accettino i miei libri più facilmente di quanto non farebbero se il punto di vista fosse sempre femminile.»
Anche personaggi hanno enorme importanza, e a un primo sguardo i romanzi che raccontano di genitori e figli piccoli sembrano essere considerati a priori territorio sentimentale delle donne. Tranne, ovviamente, quando i genitori e i figli sono maschi, come nel caso di La strada di McCarthy e Molto forte, incredibilmente vicino di Safran Foer, entrambi incentrati su una coppia padre-figlio, ed entrambi accolti con pari entusiasmo da uomini e donne.
Alcune tra le romanziere più acclamate hanno certamente scritto di donne senza complessi e con autorevolezza. Ma perché tale autorevolezza attecchisca, è necessario che l’ambiente sia ricettivo, che la riconosca e la celebri. Non è un caso che Toni Morrison, Joyce Carol Oates, Margaret Atwood, Doris Lessing, Marilynne Robinson siano emerse in un momento storico insolito, quando la presenza del movimento femminile si percepiva ovunque. Quel periodo, dagli anni 70 ai primi anni 80, sembrò creare per le autrici di narrativa una realtà nuova e definitiva. Se prima d’allora capitava di tanto in tanto che una donna venisse accolta nel cosiddetto club dei maschi, in seguito le donne di lettere cominciarono a fare massa critica, diventando più che semplici anomalie. Ma benché questa ondata abbia aiutato quelle venute dopo, col passare del tempo, per le donne, raggiungere certi traguardi è diventato sempre più difficile. Come dice Katha Politt, poetessa e critica letteraria: «Sono convinta che ci sarà sempre posto per una Toni Morrison o una Mary McCarthy, ma solo una alla volta. Per ogni donna, c’è spazio per tre uomini.»
E qui di solito cominciano a piovere le proteste e i controesempi, una manciata dei quali non manca mai: Jhumpa Lahiri e Zadie Smith sono quelli correnti. Il tempo è un bastardo di Jennifer Egan, che ha vinto sia il National Book Critics Circle Award nel 2010 che il Pulitzer nel 2011. Nel 2009, Elizabeth Strout ha vinto il Pulitzer con il romanzo di racconti Olive Kitteridge, molto amato dai gruppi di lettura, e che varie donne pare abbiano regalato ai loro uomini, i quali in alcuni casi, stupendosi loro stessi, lo hanno persino apprezzato. Più raro è che un romanzo scritto da una donna si trasformi in un vero evento, come di recente negli Usa è successo all’Amante della tigre di Tea Obreht. Eccezioni come queste potrebbero far pensare che il mondo si avvii verso una specie di idillio letterario, in cui uomini e donne siedono insieme all’ombra degli alberi, mangiando fichi e commentando brani di Kiran Desai o Jeanette Winterson. Ma nel momento in cui le donne si trovano a dover di nuovo lottare per l’accesso alla contraccezione, le statistiche dell’organizzazione letteraria femminile VIDA mostrano che anche le scrittrici devono di nuovo battersi perché il loro lavoro venga preso sul serio. La sezione letteraria dell’American Academy of Arts and Letters annovera 33 donne tra i suoi 117 membri. Negli ultimi tre anni più dimetà dei premi del National Book Critics Circle è andata a donne, e due donne, Jaimy Gordon e Jesmyn Ward, hanno vinto gli ultimi due National Book Award di narrativa. Finora, però, nessuna delle due è diventata un caso culturale.
Chi legge chi? E come? Erano gli interrogativi sollevati da Francine Prose in un affilato pezzo apparso nel ’98 su Harper’s Magazine: in una «degustazione alla cieca», dimostrava che, rimuovendo l’etichetta di genere, identificare il sesso di un autore non era così facile. Concludeva: «Ancora oggi, la narrativa scritta dalle donne viene letta diversamente, con il solito armamentario di pregiudizi e preconcetti». «Vorrei poter dire che da allora le cose sono drasticamente cambiate», mi ha confidato di recente l’autrice, «Ma non sarebbe vero.» Aggiunge Lorrie Moore: «Una volta una studiosa mi ha detto: “Io quello che pensano le donne grosso modo lo so già. M’interessa di più leggere libri scritti da uomini”». Il problema di un’affermazione del genere risulta evidente ribaltandola. Se un uomo dicesse «Io so già cosa pensano gli uomini. Mi interessa di più leggere libri scritti da donne» andrebbe incontro a qualche incomprensione.
Certo, le donne che scrivono letteratura possono cavarsela benissimo anche senza i lettori maschi. E alcuni autori maschi hanno confessato di invidiare alle donne il predominio femminile nella comunità di chi legge (e compra) romanzi. Si sente ripetere che le donne sono le principali consumatrici di narrativa, e alcune di loro ritengono che gli uomini, quanto a letture, siano casi così disperati che forse bisognerebbe smetterla di considerarli consumatori di narrativa di qualità. Di fronte a un’ipotesi del genere, più di un uomo si sente comprensibilmente offeso. Ma lo scaffale più alto della narrativa di qualità – dove l’aria è pura, la vista magnifica, e un libro entra nell’immaginario del pubblico e nel dibattito culturale – continua a sembrare curiosamente, sproporzionatamente maschio. L’avvento di una nuova generazione di lettori riuscirà a modificare le abitudini letterarie di un’intera cultura? Magari in un mondo più giusto.
NB. Mi piacerebbe che sui quotidiani italiani, ma anche in rete, si potesse usare la stessa franchezza nel porre il problema senza essere accusate di fanatismo. E, per inciso, il Gr1 di due giorni ha parlato dello “scrittore” Toni Morrison. Tanto per.
Bell’ articolo, e condivido molti dei contenuti.
Purtroppo però si va sempre più verso la ricerca del nudo profitto e verso lo scontro di colossi per ottenere il monopolio delle vendite, soprattutto quelle online.
Presto sugli scaffali alti ci metteranno solo chi garantisce quantità, già lo fanno a dire il vero, fregandosene della qualità.
Anche per le scrittrici donne ci sarà un decisa virata verso lettrici dai gusti certamente non altamente letterari. E credo che in un immediato futuro saranno le donne a conquistare i vertici dele classifiche.
Vedasi l’arrembante genere del mommy porn.
Che fare? Al momento direi di cercare i buoni libri e diffonderli il più possibile tra gli amici. Prima o poi il diluvio finirà e le acque si ritireranno.
Sono andata a guardare la folta biblioteca di mio fratello, scrutando con attenzione ogni volume. Non un libro scritto da una donna. Non uno.
tornerò per sfidare la profondità dell’argomento in campo.Per ora purtroppo mi preme aggiornare l’orrore quotidiano e devo ricordarti che hai saltato il bastardo che ha coraggiosamente fatto fuori la sua ex sotto gli occhi della figlia a Brescia prima di farsi saltare le cervella troppo tardi
Se applicassimo lo stesso metodo sui libri in lingua inglese, i più noti, che occupano le classifiche (opportunamente?) dei 100’s best book etc?
Ci sono casi nazionali e casi internazionali. In Italia, com’è la situazione?
http://en.wikipedia.org/wiki/The_100_Best_Books_of_All_Time
Ammetto che nella mia biblioteca gli scrittori maschi sono in maggioranza, ma non ho nessuna chiusura: ho letto Isabel Allende, Amelie Nothomb (Acido solforico), Simona Vinci, Elizabeth Strout (Resta con me), Kathryn Stockett (L’aiuto), e pure autrici meno note come Grete Weil (Il prezzo della sposa) e Maryse Condè (Io Tituba, strega nera di Salem) se la storia mi attira non m’importa del sesso dell’autore. Più che la copertina, a farmi decidere l’acquisto è la quarta di copertina o i risvolti dove di solito ci sono le anticipazioni sulla trama.
a parte poche eccezioni trovo le scrittrici donne noiose, tendono ad essere troppo auto-referenziali e chiuse nel loro piccolo orizzonte quotidiano. di solito cerco altro da un libro.
Grazie, bobone. Grazie per gli esempi che fai e per le elevate argomentazioni, sicuramente al di sopra di ogni pregiudizio. Sono colpita.
La mia biblioteca è piena di saggi scritti da donne. Arendt, Weil, Zambrano, Irigary. Ma anche Muraro, Cavarero, e pure Lipperini. Anzi le mie letture negli ultimi due anni sono decisamente orientate in tal senso.
Ma – oibò – la narrativa femminile conservata e non buttata è poca, pochissima rispetto al resto: Munro, Atwood, Janeczek, Ferrante.
Come mai, visto che non ho preclusioni di genere?
Semplice: in gran parte la narrativa rosa che ho esplorato è prevedibilmente ideologica, ostentatamente ma maldestramente erotica o semplicemente pallosa.
Dimenticavo Jelinek. Interessante.
Postato in http://www.facebook.com/pages/Chiara-Palazzolo/178324988935557?ref=tn_tnmn
@binaghi: Già il fatto di chiamarla “rosa” è prevedibilmente ideologico.
Appena controllato: gli unici “fermaporte” scritti da donne che ho in casa sono di Elsa Morante, e, volendo (446 pagine, neanche tante), uno di Torey Hayden.
Detto da un lettore che l’ossessione per le dimensioni ce l’ha eccome, perdonami: se i miei autori o le mie autrici preferite se ne escono con un libro di 50 pagine, io un po’ ci rimango male.
@Alessandra
Giusto. Anche se a certe autrici tipo Santacroce o Teodorani un po’ di rosa farebbe solo bene.
Ho l’impressione che ci sia questo pregiudizio: i libri di donne parlano di donne, i libri di maschi parlano di tutto. Pregiudizio che secondo me è cavalcato e ben alimentato dall’industria editoriale: come il fenomeno della re-gendrization è cavalcato per vendere più giocattoli, identificando un target sicuro di riferimento in base al genere, immagino che anche per l’editoria si sarà fatto lo stesso ragionamento. Ad esempio la chick-lit ecco è rivolta proprio esplicitamente a un certo pubblico femminile. E come dice Meg Wolitzer, sicuramente ci sono libri di cui nel marketing (titolo, quarta, copertina, posizione in scaffale con libri “rosa”…) viene enfatizzata la componente “femminile” per dar loro un posizionamento chiaro sul mercato e attirare un certo pubblico; proprio come lo stesso giocattolo a seconda del marketing può essere venduto come neutro o da maschio/ da femmina. (Però nei libri non c’è un corrispettivo maschile… Anche i genere nati come più maschili come poliziesco, thriller, fantascienza, horror, fantasy… oggi hanno un vasto pubblico femminile e anche autrici. )
Anche nella mia libreria prevalgono comunque gli autori di narrativa maschi. Nello scaffale supremo dei preferitissimi, le donne sono ben rappresentate anche se non proprio novità editoriali: Woolfe uber alles, Morante, Agotha Kristof, e ben due titoli del sig. Toni Morrison 🙂
Per secoli abbiamo assistito a una sorta di “usurpazione”: gli scrittori uomini parlavano anche a nome dele donne. Prestavano la loro voce, come in un falsetto più o meno riuscito. Non c’era altro modo, ovvio. Le donne non sapevano scrivere, la maggior parte di loro almeno. Poi lentamente le cose sono cambiate. Ma non ancora del tutto.
Noi ce l’abbiamo nelle orecchie – noi lettori, intendo – il tono delle scrittore (uomo). Ce l’abbiamo per tradizione, per portato culturale, per sedimentazione secolare. Gli attribuiamo una importanza superiore, anche se non ce ne rendiamo conto.
E’ la stessa usurpazione – ma a livello basso e istintuale – che fa sì che io maschio “interpreto” te femmina nel tuo desiderio (sbagliato) e quindi ti punisco (uccido).
Molto acuta questa connessione, Loredana, tra femminicidio e scrittura maschile/femminile. E’ uno di quei nodi attraverso cui ripensare un nuovo mondo.
io sarò banalissimo: ciò che cerco sono personaggi credibili e coerenti col genere di storia che si vuol raccontare. scrittori maschi capaci di creare personaggi femminili plausibili e “veri” non mancano e certamente accade anche il contrario: penso all’Elizabeth Strout di Resta con me ma è solo un esempio
Ora le donne scrivono molto di più di un tempo. Però l’idea che scrivano solo di se stesse è rimasta. Eppure. Eppure abbiamo avuto un genio della sperimentazione come Virginia Woolf. Una delle penne più lucide e poetiche mai esistite come Yourcenar. E non sono le sole. Però, come dite giustamente, è rimasta l’idea che le donne siano più autoreferenziali, o pallose, o “ostentatamente erotiche” (diosanto, c’è una schiera di scrittori maschi che rientrano nelle tre categorie suddette, e lascio fuori l’ideologia per carità di patria). Abbiamo un problemino. 🙂
@Palazzolo
“E’ la stessa usurpazione – ma a livello basso e istintuale – che fa sì che io maschio “interpreto” te femmina nel tuo desiderio (sbagliato) e quindi ti punisco (uccido). (…) E’ uno di quei nodi attraverso cui ripensare un nuovo mondo.”
E’ uno di quegli s-nodi che portano dritti alla paranoia.
Posso scendere dall’autobus per in Nuovo Mondo?
Binaghi, se scendi dal piedistallo, tanto per cominciare, ci rendi tutti più sereni perché onestamente delle tue battutine non se ne può più (e no, non c’entra niente con l’essere o non essere allineati: si possono dire le stesse cose in tutt’altro modo, ma a te piace disegnarti così, evidentemente).
Alcuni anni fa, quando capitai su Lipperatura quasi per caso, mi resi conto di quante poche scrittrici avessi incontrato nella mia vita di lettore. Nonostante i casi, soprattutto Yourcenar, citati sopra.
Non era stato frutto di una scelta, bensì di una casuale circostanza. Non del tutto casuale, visto lo status quo. Da allora decisi di dare un cambio di rotta, proprio cominciando dalla trilogia di Chiara Palazzolo che era qui recensita. Non solo mi piacque tantissimo, ma tutti i problemi che qui vengono tirati fuori non mi sfiorarono per niente. Scritta benissimo, personaggi interessanti, storia ben oltre la camera e cucina, e tutto fuorché ombelicale (o più giù).
Di romanzi scritti da donne ne ho letti parecchi negli ultimi 3 anni. Sarò ingenuo ma il quesito: “Si vede che è scritto da una donna?” non me lo sono mai posto. Può essere che le differenze di genere tra uno scrittore e una scrittrice possano influenzare la scrittura. Direi di un 3%. Una percentuale piuttosto scarsa rispetto al restante 97% dovuto alle differenze individuali\personali.
Ora, se esiste un scarto non trascurabile di rappresentazione\percezione del fenomeno “scrittrici” e “romanzi scritti da donne”, significa che da qualche parte i lettori lo colgono. Ma quanto è nella pagina? Quanto nell’eye of the beholder?
Io scommetto tutto (o quasi) sull’occhio.
Propongo, a chi non l’avesse già fatto, di leggere qualcosa di Maria Bellonci e Anna Banti per cominciare a liberarsi dei pregiudizi circa la narrativa scritta da donne, pregiudizi che gli/le impediscono di conoscere due scrittrici di cultura, raffinatezza e sensibilità straordinarie. In particolare, mi pare degno di nota il fatto che una scrittrice come Anna Banti sia stata accantonata nel dimenticatoio e ripescata solo dopo il successo del film “Noi credevamo”di Mario Martone che si è ispirato proprio al titolo di un romanzo della Banti e, se non alla storia in sé, quanto meno al sentimento antieroico che attraversa tutto il romanzo. Cito solo alcuni titoli, oltre al celeberrimo Artemisia, la cui lettura sarebbe a dir poco illuminante oggi: Il coraggio delle donne, le donne muoiono, il bastardo (da leggere insieme a una donna di Aleramo), un grido lacerante. Come mai la prolifica attività di una scrittrice colta e raffinata come Anna Banti non trova spazio negli scaffali delle librerie o tra le pagine dei libri di testo? Mi permetto di aggiungere un altro nome, Joyce Lussu. Solo conoscere la sua vita basta a smontare ogni stereotipo: partigiana insignita di medaglia d’argento al valore militare, ha combattuto, e sottolineo combattuto, la Resistenza anche mentre era incinta, per poi ripartire, già madre, a lottare contro il colonialismo e per l’indipendenza in Guinea Bissau. Ne racconta in “l’uomo che voleva nascere donna”, ma anche, sulla Resistenza, in “padre padrone padreterno”, attualmente editi solo da una minuscola casa editrice, la gwynplaine edizioni (il primo è stato ristampato ad aprile 2012). Poi, se vogliamo continuare ad associare la scrittura femminile esclusivamente al sentimentalismo rosa, per lo meno facciamolo con la consapevolezza di avere una conoscenza parziale e limitata della letteratura ed evitando di giustificare questa lacuna postulando presunte tendenze insite (per natura?) nella scrittura femminile. Chiamasi onestà intellettuale.
Dunque – condivido la problematica di fondo. Ma non voglio limitarmi a questo e annarmene.
Intanto – anche io se mi viene uno o una e mi dice, io scrivo di mamme e bimbi e figli e famigghie, penso a roba di serie b. Questo avverto in alcune scrittrici in cui sento che sono abitate da una pedagogia di genere stereotipica, che non c’è letteratura, non c’è visione del mondo. Che se chiedi su che scrivi, ti dicono le coserelle così. Nel senso di questo e nient’altro, nel senso di niente come metafora di niente. Spesso, ricerca linguistica meno di zero. Esco ora da un libro che mi è piaciuto per intenzioni, per talento di plot, per alcuni passaggi intelligenti non voglio dire l’autrice perchè mi parrebbe di farle un torto, mi ci sono affezionata come a una soap, ma in ultima analisi scrive coi piedi, lavoro sulla parola a cazzo. Meno male c’è l’editor pensa un’ c’era. C’è un vasto ventre di mercato editoriale di scrittrici mediamente note, che mi fotografano un po’ di reale, e questo è tutto. La spirale della discriminazione di genere è anche in questo giochetto dell’editoria, nella storia che una dovrebbe leggere per identificarsi: femmina co’ femmina, mamma co’ mamma e baci ai pupi. La scrittura femminile è questo: un gioco di specchi taroccati.
Ma è mercato. E le scrittrici non sono solo questo. Munro ha una acuta percezione della lotta di classe, e come Lessing fa romanzi che hanno molta politica tra le righe. Contro un Eugeniedes che a me mi ammorba in tutta onestà per superficialità, parere personale, che quando ho letto Middlesex volevo annaje a menà a casa per l’anestesia emotiva di cui era permeato per la stura rosa confetto che appiattisce i colori, ci sono molte scrittrici piuttosto complesse che hanno prodotto una letteratura complessa, che rimanda ad altro al coraggio di una visione del mondo – meta. Tra le nostrane Michela Murgia è una di queste, e Valeria Parrella idem con patate.
Però come può un sistema editoriale incentivare l’emancipazione politica delle scrittrici, cioè delle soggettività, quando per sopravvivere si nutre di collettività oggettificate?
Mi chiedo quanto potrebbe incidere sull’immaginario collettivo l’ampia diffusione, a partire dalla scuola, di una scrittrice come Bellonci che narra la vita di una Isabella d’Este per la statista e mecenate che è stata e di una Lucrezia Borgia liberata dalla sua fama di lussuriosa femme fatale. E quanto potrebbe sovvertire l’immaginario femminile stereotipato la voce di una donna che racconta di quando, a cinquant’anni, partì per combattere la guerra d’indipendenza in un Paese che si stava liberando dal colonialismo.
Virginia Woolf e la rivoluzione che ha portato nel romanzo del 900 con il flusso di coscienza, non è da meno di Proust, e la ritengo superiore a Joyce.
Non si può parlare di letteratura senza tenere presente il suo apporto.
Yourcenar, Ingeborg Bachmann, Agota Kristof, Krista Wolf, Alice Ceresa, Némirovsky… chi non si accosta a tali penne per pregiudizio perde molto. Da parte mia continuerò ad arricchirmi.
In quanto a certo erotismo, forse è nel pensiero di chi legge sapendo che sta leggendo una scrittura di donna. In ogni caso un sano e consapevole erotismo può non essere gradito, ma trovo un egotico fallocentrismo di cui certi autori non possono fare a meno piuttosto disturbante (così ho detto addio a Murakami, non dopo avergli dato diverse possibilità).
@Lipperini
Piedistallo? Chi è che dice agli altri come si devono disegnare?
Concordo pienamente con Elisabetta circa la superiorità artistica di Virginia Woolf rispetto a James Joyce nel padroneggiare il flusso di coscienza. L’Ulisse è, diciamocelo, illeggibile, eppure nei libri di testo ad uso e consumo delle scuole, quando si tratta di monologo interiore e flusso di coscienza, il riferimento è a Joyce e la selezione antologica è tratta dall’Ulisse. Nel 99% dei casi, su Virginia Woolf nemmeno una parola, come se non esistesse. Poiché nella valutazione di un autore e di un’autrice non considero lo stile disgiunto dai contenuti, anche in questo caso mi chiedo quale ricaduta culturale potrebbe avere accordare un spazio decente e meritato non solo ai romanzi di Virginia Woolf, ma anche a opere che sfuggono a una classificazione canonica come Le tre ghinee e Una stanza tutta per sé. Davvero, l’apporto di questa scrittrice è enorme, il suo contributo al rinnovamento della letteratura del 900 è decisivo, sia sul piano della forma che dei contenuti. Eppure la si legge poco e spesso ci si limita a insistere sui particolari della sua vita, sulla sua bisessualità e sul suicidio.
Concordo con Elisabetta anche sull’effetto disturbante di un egotico fallocentrismo di cui non solo gli autori, ma anche il pubblico e l’editoria sembrano non poter fare a meno. Non ricordo se è per questo, ma anche io, dopo ripetuti tentativi, ho abbandonato Murakami a se stesso e ai suoi numerosi fan.
Io sono una fan di Murakami, per esempio. 🙂 Il punto, a mio parere, è nella sottovalutazione delle opere femminili e nella cornice che le rinchiude. Ma anche in quel gioco di specchi taroccati di cui parla Zauberei: perché è anche vero che al richiamo del mercato (scrivi romance e ti pubblichiamo) molte donne aderiscono di corsa. Bisogna avere le spalle due volte più forti per portare la propria voce e soprattutto per farla accettare. Penso, per restare in Italia, a Elsa Morante e alla puzza sotto il naso con cui molta critica (maschile) la giudica. Penso, per aggiungere un altro nome a quelli fatti da Zauberei, a Helena Janeczek, che ne Le rondini di Montecassino ha usato una voce tutt’altro che “femminile”. Penso a Babsi Jones. C’è ancora un altro punto. Le scrittrici non sono quasi mai autocelebrative. E forse forse bisognerebbe imparare a esserlo.
OT. un caso di delicato umorismo sulla donna indiana uccisa a Piacenza http://messaggeroveneto.gelocal.it/cronaca/2012/06/01/news/consigliere-leghista-di-udine-choc-la-donna-indiana-gettata-nel-po-ha-inquinato-il-nostro-fiume-1.5188170
Letto, Giobix. La cosa triste è che queste esternazioni sono quasi prevedibili e stanno diventando la nota di colore del leghista. Ma se leggi attentamente il commentarium sotto qualche post fa, quando si parlava di donne migranti…
De gustibus, Loredana 🙂 Io con Murakami non ci riprovo.
Preferisco dedicarmi alla scoperta delle autrici che hai citato e che non conosco. Concordo sul fatto che le scrittrici aderiscono di corsa al richiamo del mercato (e non lo giustifico), ma altrettanto può dirsi degli autori. Solo che, nel secondo caso, si operano opportuni distinguo fra opere letterarie e prodotti commerciali, mentre nel primo si tende a inglobare tutta la produzione letteraria in categorie quali sentimentalismo rosa, autobiografismo autoreferenziale, paturnie varie ed eventuali, categorie che sì, esistono, ma non sono le uniche e pertanto non possono e non devono essere rappresentative di tutta la scrittura femminile, culminando in un “così fan (o scrivono) tutte”. Mi vengono in mente due romanzi che ho provato a leggere e abbandonato a circa la metà: La solitudine dei numeri primi e Acciaio. Bene, per quanto mi riguarda si tratta di due operazioni commerciali finalizzate a vendere a uno stesso pubblico (quello adolescenziale) e a fare un po’ di caciara attorno al premio Strega. L’operazione è la stessa e chi ha scritto si è prestato allo stesso meccanismo: uno è maschio e l’altra è femmina. Ora, perché la Avallone, a differenza di Giordano, dovrebbe essere rappresentativa di tutta la scrittura femminile, contribuendo in definitiva a liquidarla in quanto, ad oggi, commerciale?
Perché è così che, purtroppo, funziona. Pensa alle infinite discussioni su come il romance o il mommy-porn in arrivo “distruggano” il mercato. Come se tutte le colpe vadano alle donne che ne sono autrici. E pensa a come questi filoni oscurino le scritture non commerciali femminili. E pensa ancora a come gli scrittori blandiscano “la lettrice”, spesso implicitamente disprezzando “la scrittrice”. Ecco.
io non ho mai capito neanche la distinzione tra “commerciale” e “letterario”, l’unica distinzione che conta è tra un romanzo che ti coinvolge, che ti parla e uno che non ti dice niente…è un criterio estremamente soggettivo, ma è l’unico che riesco ad adottare. In questo senso meglio un bel romance appassionante che un opera letteraria “seria” (qualunque cosa voglia dire) che risulta astrusa.
e alla fine l’importante è che le storie piacciano a chi le scrive prima ancora che al lettore, se vuoi scrivere romance, “chick-lit”, o horror o thriller o fantasy o erotico e relative commistioni, combinazioni e sotto-generi (secondo me pure queste classificazioni lasciano spesso il tempo che trovano, le uso per comodità) perchè ami quelle storie, quelle atmosfere, quei personaggi e vuoi che vivano, vuoi che siano veri e plausibili, perchè tu quella storia hai in testa è ok, se scrivi pensando solo al portafoglio bè probabilmente scriverai male e secondo me, si capisce sempre quando un romanziere ama la sua materia narrativa, la storia che racconta
“se scrivi pensando solo al portafoglio”, dico “solo” perchè che un romanziere (ma vale per qualunque artista e intellettuale e chiunque trasformi la sua passione in una professione) non ci pensi per niente è cosa che giudico quantomeno improbabile e non c’è niente di male, del resto.
ammetto che il mommy porn mi manca, mai sentito nominare. Da rapidissima ricerca con google, trovo solo un link in italiano, questo
http://www.minimaetmoralia.it/?p=8061#more-8061
da cui non mi pare di ricavare un gran lavoro di critica letteraria. Piuttosto, mi sembra che il bestseller di prossima uscita abbia offerto la succulenta occasione di andare un po’ a rovistare tra i desideri e gli slip delle donne, con l’ausilio di Hegel e Lacan, che fanno tanto colto, fino ad arrivare a sentenziare sulla libertà sessuale delle stesse. Insomma, non si analizza la letterarietà: “inutile entrare nel merito del romanzo, che si legge bene e regge fino alla fine” è l’unica analisi che lo scrivente sa fare (complimenti), forse perché troppo preso ad addentrarsi nei meandri della psiche femminile, non senza aver lanciato una frecciata a “femministe, post-femministe, protofemministe di risulta o meno”. E meno male che è il blog di una casa editrice. Tanto per rimanere in tema, vale la pena guardare la sua composizione e la percentuale di quote rosa: tra gli autori attualmente attivi, c’è solo una donna su 10, nessuna tra i passati collaboratori. La redazione è però curata da Valentina Aversano.
http://www.minimaetmoralia.it/?page_id=2368
non capisco perché la critica letteraria colta e blasé dovrebbe adeguarsi alle preferenze del pubblico femminile solo perché rappresenta una quota rilevante del mercato. è come dire che i critici cinematografici dovrebbero mettersi a elogiare i prodotti di massa e abbandonare il cinema d’autore. le autrici donne sono confinate in un mondo piccolo e coatto tipicamente femminile, lo sguardo degli autori uomini riesce a spaziare molto oltre.
se non capisce il “perché la critica letteraria dovrebbe adeguarsi” il problema è suo. Del resto, non potremo essere certamente noi donne, chiuse in un mondo piccolo e coatto, a fornire un perché alle domande di un uomo che, notoriamente, ha uno sguardo che riesce a spaziare molto oltre.
Gli “autori uomini”, comunque, è tautologico, questo glielo posso dire con certezza, fidando nelle regole della grammatica italiana.
In un commento qui sopra chiara palazzolo definiva “molto acuta la connessione tra femminicidio e scrittura maschile\femminile”. Sono d’accordo anche per me.
sul femminicidio, spero e credo che nessuno voglia risolvere l’asimmetria, incentivando l’omicidio di individui maschi da parte delle femmine. Fermiamo gli uomini .
Così in letteratura spererei che nessuno volesse raggiungere la parità promuovendo scrittrici e romanzi scritti da donne, ma più casomai demolendo gli scrittori, i critici, la letteratura i libri degli uomini maschi. il fatto che le donne non uccidano, o uccidano molto meno, è un merito. Che le donne non scrivano, o scrivano molto meno è un merito anche superiore.
Qualcuno ha detto che i libri, ( come la masturbazione) fanno diventare ciechi, ammettiamolo perlomeno limitano la vista, impediscono di vedere l’Altro, il vicino che ti sta di fronte, le crepe sui muri.
ciao,k.
Interessante scoprire che Marco Filoni si esprime in questi termini sul femminismo. Bello scoprire che quando ci si sente “in libertà” si può dar sfogo ai propri reali pensieri. Sul mommy-porn. Semplicissimo: Cinquanta sfumature di grigio, già fan fiction, poi best-seller americano, è il titolo su cui Mondadori si gioca il tutto per tutto nei prossimi tre mesi. Seicento pagine vendute a prezzo stracciato, e con mega-ultra-promozioni (capito, amici mulini a vento che passate di qui e amici librai?) e con l’idea di lanciare il trend del porno femminile. Vecchia storia, ma in questo caso senza alcuna attenzione al contenuto, bensì. Bensì.
Credo che Filoni ricada in uno dei soliti cliché, quello della femminista sporcacciona, il rovescio di uno spauracchio che si agita secondo necessità, quando non è utile quello della femminista bigotta. Temo che il bestseller americano di prossima uscita in Italia contribuirà non poco ad alimentare il primo dei due, suscitando ampi e articolati dibattiti che sempre dentro i nostri slip vanno a cadere.
Basta sottrarsi 🙂 Di certo il lancio sarà poderoso, seicento pagine che, a quanto pare, arriveranno a essere vendute con le dovute promozioni (quelle “lecite”) intorno ai dieci euro. Più tutti gli articoli sulle derive, appunto, del femminismo sado, maso, post e ante, con richiesta di dichiarazioni a esperti e servizi su Vanity Fair (sto immaginando, a braccio). Perché se il filone mommy-porn non attecchisce in Italia, saranno guai per le casse editoriali di chi ci sta puntando. Teniamolo presente e andiamo oltre.
Dentro ai vostri slip non mi permetterei, ma in quelli di Filoni mi piacerebbe sapere cosa c’è: ossia, perchè ci si prende la briga di recensire sempre e comunque su riviste ad alta tiratura libri che a detta del recensore fanno cagare ma bisogna comunque parlarne?
Visto che gli piace discettare di sottomissione, la sua non è una bella genuflessione al big editore e al big lancio dell’anno proprio mentre sembra esibire la sua distanza critica?
Di quanti bei libri editati in piccolo il giornalista omette di parlare, per dare spazio invece ad ambigui posizionamenti di questo genere?
Detto questo, il libro sembra ricordare “Histoire d’O” e come quello meriterebbe il totale silenzio degli addetti ai lavori, in un paese non popolato da letterati affetti da paraculaggine cronica.
Punizione per Filoni: rivedersi tre volte “L’Impero dei sensi” di Nagisa Oshima.
Io mi sottrarrò di sicuro, ma di fronte a lanci così imponenti è facile che in molti e molte rimarranno schiacciati, alimentando i dibattiti di cui sopra e quindi rendendosi clienti di certa papponeria editoriale (mi si consenta l’espressione, non me ne viene un’altra ugualmente efficace). La questione sono appunto le casse, il valore prodotto, non solo in termini di vendite, ma anche di pubblicità. E’ per questo che bisogna sempre far finta di recensire, anche se, in realtà, del romanzo non frega niente. Si alimentano i pruriti e così la pubblicità, le vendite del libro-merce, il film e relativi incassi. In questo meccanismo (di cui poi l’unica capra espiatoria rimane la donna) , il Filoni ci ha visto bene, ha giocato d’anticipo. Io comunque mi sono riservata di lasciare un commento sul blog in questione: fermo, ma contenuto nei toni. Ché altrimenti, si sa, scatta d’ufficio l’accusa di isteria, complice, anche in questo caso, quell’altro grande conoscitore della psiche femminile che è stato un certo Freud. Che prevedibilità 🙂
Comunque io voglio seguire il lancio e osservare come andrà. Solo per verificare se stiamo prendendo abbagli.
in questi giorni ho rimesso in ordine i libri, avendo comprato nuove librerie. In una ho messo tutta la narrativa maschile.
Come suona?
A giudicare poi dall’attuale congiuntura, agli uomini (perlomeno ai molti che ancora non lo fanno) non farebbe male iniziare ad occuparsi anche del loro “orizzonte quotidiano”. Guardare solo “oltre” si sta rivelando pericoloso, per loro e per tutt*.
Mi sono fischiate le orecchie e vi ringrazio. 🙂
A parte questo, l’articolo che Loredana ha postato offre uno spunto molto utile e anche abbastanza spaventoso, visto che si pensava (sperava) che nel mondo anglosassone fossero messi un po’ meglio. Proprio pensando a Toni Morrison, Joyce Carol Oates, Margaret Atwood, Doris Lessing, Alice Munro, Elizabeth Strout, Jeanette Winterson, Jennifer Egan, Antonia Byatt, Nicola Barker, Ali Smith – giusto per mettere giù i primi nomi che mi saltano in testa di autrici considerate scrittrici “alla pari” (sic! e sigh!).
Del resto, è in quell’ambito che la prime grandi scrittrici fanno breccia – Jane Austen, le sorelle Bronte, George Eliot.
Per chi non la conoscesse: non dimenticatevi di Katherine Mansfield!!!
Lo so che questo commento non porta molto più in là la discussione. Vorrei rifletterci un po’ e tornarci sopra dopo.
Sono andata da minima e moralia. Non trovo male che un articolo usi in testo per riflettere sul desiderio su dinamiche psichiche e sociali, ci sono cose dette già da benjamin mi sa dieci anni fa – jessica, psicoanalista femminista – pare pare. Ma l’articolo ha qualcosa di vecchio. Non necessariamente maschilista, quanto semplicemente ingenuo.
Helena, Katherine Mansfield è stata il mio primo amore (e la amo ancora, al punto che i suoi libri sono i più spiegazzati di tutta la biblioteca). La cosa bella (e tremenda) di questo articolo, e di tutto il pregevolissimo lavoro di Vida, è che appunto il tutto avviene in paesi dove obiettivamente esiste maggiore autorevolezza femminile in ambito letterario. Qui, essere “alla pari” (sic e sigh anche io) è molto più difficile, anche perché la questione viene negata, molto spesso dalle stesse autrici o editor o operatrici culturali che dir si voglia (sic e sigh, ancora).
@zauberei
ma in linea di massima nemmeno io trovo male che si usi un testo per andare un po’ più in là del testo stesso. Il problema è dove vogliamo arrivare, oltre al fatto che, per deformazione professionale, gradirei che il testo non scomparisse del tutto, non fosse preso solo per un semplice pretesto per parlare di altro. Nel caso specifico, mi turba il “dove” si voglia arrivare: imponente dispiegamento di risorse economiche e fiumi di bit impiegati per cosa? Perché lo stesso dispiegamento di forze non lo si usa anche per diffondere anche autrici che affrontano tematiche, per esempio, storico-politiche? E soprattutto, quali idee e quali messaggi si confezionano e si liberano sul mercato attraverso la promozione di un’autrice piuttosto che di un’altra? I miei sono solo interrogativi, del resto ho già detto che starò a vedere per capire, cercando di non alimentare ulteriormente un tam tam mediatico se non mi piacerà e mi darà conferma di quanto ora posso solo ipotizzare.
OT
mi sono riletta: “la questione sono…”, vabbe’, mi perdonerete, spero 🙂
Antonellaf 🙂 ti capisco. Diciamo che io sono in dissenso per altre cose, ma sempre nella tua prospettiva. No non penso di dover pretendere, ma solo desiderare che chiunque senta me mie stesse urgenze. Questo tipo di analisi hanno una loro utilità, e per altro uguali e spiccicate si trovano nella tanto vituperata critica femminista. Perchè la critica femminista quando è ben strutturata parla proprio quel linguaggio. No per me cultura è anche quello.
Mi ha urtata, e come al solito temo di aver reagito nel peggiore dei modi su minima e moralia, certi vizi ideologici, e certo vecchiume non svecchiato che alla fine usa la filosofia come mezzo per dare un abito di lusso a uno sguardo reazionario e un po’ borghesotto gira che ti rigira, in modo che ho trovato un po’ ingenua e alla fine veterosessista. Se per esempio voleva parlare di ciò che il libro dimostra e rinviare a critiche ben fatte da altri, le critiche ben fatte da altri dovevano essere postate nel corpo dell’articolo non nei commenti, con una diplomazia un tantino in ritardo. Se la sporcaccioneria delle donne è tanto sdoganata dai filmetti più o meno citati, il suo stesso tono sarebbe stato diverso, e anche le cose che argomentava. Se le donne non possono mai giocare a, ma essere solo nel allora quel libro ha ragione di essere. Come in effetti è in questo momento di transizione in cui non tutti siamo allo stesso punto del passaggio.