Fai così. Pensa a tutte le situazioni oscure in cui ti sei trovata. Da quelle piccole a quelle grandi, che sembravano insormontabili. Mettile in fila. L’anno in cui sei stata rimandata in ginnastica, ne avevi undici e sembrava una catastrofe (eh sì, in ginnastica: avevo un’insegnante convinta che non riuscissi a salire sull’asse di equilibrio per farle un dispetto. Mio padre sosteneva che fosse un po’ nazista, e forse aveva ragione. Di fatto, non ci sono mai più riuscita). Il tuo primo amore che bacia un’altra, e tu ovviamente lo sai, anzi qualcuno te lo viene a dire, perché a quindici anni c’è sempre qualcuno che non vede l’ora di dirti quello che ti farà male. Sono sciocchezze, certo. Ma da bambini e ragazzi le sciocchezze sono nuvole di tempesta che si ingrossano a ogni pensiero, e tu resti sdraiata sul letto immaginando di morire, oppure di crescere e diventare astuta, bellissima e perfida come Milady de Winter.
Ma poi gli anni passano, e le tempeste diventano vere. E dunque, gli anni Ottanta. L’anno in cui Graziella scompare per sempre. I due anni in cui, colpo su colpo, perdi due bambini e tuo padre. Uno di quegli anni, è il 1986, è quello in cui la nube di Chernobyl si allunga su buona parte del mondo. Beniamino Placido scrive:
“E’ stato osservato che per la prima volta nella storia una generazione – la nostra – lascerà ai propri figli un mondo meno rassicurante – in termini di lavoro, di occupazione – di quello che aveva trovato. Eccellente iniziativa. I problemi non guadagnano molto ad essere accantonati o rimossi. Si convertono in sorde, segrete angosce. E noi questo problema lo abbiamo rimosso o accantonato fin quando abbiamo potuto”.
Sarebbe avvenuto, avviene, proprio adesso, e ancora di più.
Fai così. Metti in fila il dolore che hai provato, e dopo quelli che hai elencato ce ne sarebbero stati molti altri, la perdita di Chiara, di tua madre, tutte le paure che ti hanno stretto il cuore, da quelle lavorative ed economiche a quelle affettive. Osserva le differenze. Quelli riguardavano te sola, oggi riguardano tutti.
Chiediti cosa puoi fare. Non c’è risposta, non sei un’eroina. Anche se registrassi un video, non servirebbe a molto: rispetto e ammiro che lo fa, io ne ho registrati tre all’inizio di questo tempo tremante, ma non ne farò altri, non voglio consumare nulla di una rete che serve, e sicuramente i video servono intendiamoci, ma io sono qui, scrivo, parlo dalla stanzetta in fondo al corridoio ogni pomeriggio, altro al momento penso di non poter dare. E magari neanche questo è utile, ma appunto, nulla è sicuro e tu scrivi e parli lo stesso.
C’è una differenza, appunto: siamo tutti qui, e non possiamo fare altro che aiutarci, gli uni con gli altri, facendo salve tutte le altre differenze, quelle fra noi che scriviamo e parliamo e quelli che sono a casa con la febbre, quelli che sono in ospedale, quelli che piangono un padre, una madre, un nonno perduti senza un saluto, quelli che non hanno uno stipendio e neanche una partita IVA e non sanno dove sbattere la testa, eppure riescono ad andare avanti lo stesso.
Fai così. Non è che stai diventando mistica, né un’anima salva. Stai provando a camminare sull’asse di equilibrio, per una volta.
Questo tempo sospeso ci permette di fare cose inimmaginabili prima. Inimmaginabili forse no, impossibili. Come ascoltare sé stessi. Certo, il prezzo è altissimo, ma è la legge della domanda e dell’offerta, temo. Io sono, ero, una lettrice bulimica. Oggi invece chi fame di parole come queste. Forse dopo…forse non ci sarà un vero e proprio dopo. Come rinascere, ripartitorirsi, ma senza lasciare del tutto la placenta.