Qui l’inchiesta de L’espresso. Inoltre, quelli del Giudizio Universale offrono uno speciale scuola articolato così (dal comunicato stampa):
Apre lo Speciale Antonio Scurati con l’analisi della Scuola di oggi. “La inconcludente riforma Moratti, inghiottita dalla palude scolastica al pari di quelle che l’hanno preceduta, è stata soltanto l’ultima testimonianza della realtà scolastica come universo imploso, sistema in via di disfacimento, incancrenito da una serie interminabile di riforme il cui susseguirsi dimostra soltanto la loro impotenza a sanarlo […] Gli insegnanti, conomicamente impoveriti, socialmente declassati, professionalemente degradati, sono lasciati soli a combattere a mani nude, corpo a corpo, una battaglia di retroguardia, una lotta impari contro la propria tradizione e discendenza, quindi contro loro stessi”.
I di Internet: scuola e tecnologia sono due universi distinti: “Il problema è che è sempre tecnologia contro la scuola. I bambini che parlano al cellulare durante lelezioni e se l’insegnante lo requisisce arriva pure il genitore che minaccia rompergli il grugno. Il cellulare medesimo, o la videocamera, che immortalano violenze e molestie sessuali, che raccontarle oralmente non c’era più tanto gusto […]. Internet che fai copia e incolla e hai bell’e risolto la rogna della ricerca a casa. […]. Nel segno modernizzante della I di internet, la Moratti introdusse la materia “tecnologia” a scuola, affidandola ai professori di educazione tecnica, ma ridusse le loro ore settimanali da tre alla miseria dii una, vanificando immediatamente l’innovazione. […] Una recentissima indagine Istat asserisce che solo il 56.3% dei ragazzi tra i 3 e i 17 anni usa il computer con una certa regolarità: e di questi appena il 3% se ne serve solo a scuola”.
I di Impresa: gli stipendi dei professori. In Italia sono i più bassi d’Europa. “Delle tre I dello slogan berlusconiano, la I di Impresa è stata l’unica a essere attuata in concreto. […] Il problema è che la scuola-impresa ha assorbito i peggiori vizi del capitalismo mammone così tipicamente italiano. I salari dei dipendenti sono considerati l’ultimo degli investimenti, l’ultima tra le voci di bilancio che possono essere aumentate per migliorare la produzione”.
I di Inglese: scuole basate sul modello anglosassone. Per esigenze di spostamenti o solo perché fa chic. “Accanto a istituti da decenni presenti nel nostro Paese ne sono nati altri. […] Se una volta le scuole internazionali erano prevalentemente frequentate da stranieri residenti in Italia, l’utenza si è via via allargata. Sempre più numerosi sono stati i figli di genitori entrambi italiani, con vita radicata in Italia, che sono stati avviati verso una scelta di radicale diversità rispetto al sistema educativo nazionale”. Tra status symbol e visione di un futuro aperto a trasferimenti all’estero su spinte professionali… 5 istituti milanesi a confronto tra costi annuali, didattica, articolazione degli studi.
E di Etica: gli insegnanti di sostegno. Introdotti trent’anni fa, si muovono ancora tra problemi di coordinamento e intoppi burocratici. “Il problema è che insegnante di sostegno non si diventa sempre per vocazione: quelli di ruolo, che hanno seguito un corso di specializzazione di due anni dopo la laurea sono una minoranza. Gli altri, a lavorare coi disabili ci si sono trovati più o meno per caso, in genere per conservare il posto, o per evitare il trasferimento in una sede più lontana. […] Nonostante l’iniziativa dei singoli, però, è evidente che il servizio è ancora insufficiente. Benché negli ultimi di anni di fattosi sia verificato un aumento del numero di insegnanti, c’è stata un’enorme diminuzione dei fondi, in particolare con la riforma Moratti: i soldi per il sostegno provengono dai finanziamenti per il funzionamento didattico, ridotti del 70% dal 2000 al 2006”.
E di Educazione: la disciplina. “I genitori. Coglieva nel segno don Milani, tanto attento alla concretezza della didattica, quanto preciso nell’individuare nella relazione tra scuola e famiglia il rapporto di reciprocità a fondamento della missione educativa. […] Mai come oggi la convivenza a scuola risulta avere la febbre alta e il termometro per misurarla va applicata soprattutto alla fascia dell’obbligo: dalla primaria alla media, fino al biennio delle superiori. Sono gli anni in cui a scuola ci vanno tutti e in cui la scuola avrebbe il dovere di offrire a tutti le stesse opportunità, di trattenere e non respingere. Il vero problema (anche se può sembrare banale rammentarlo) è che le norme sono tali ed efficaci solo se condivise e riconosciute legittime da tutte le parti in campo. Il principio è che l’educazione necessita di patti chiari. Tra insegnanti e studenti. Ma soprattutto tra scuola e famiglia”.
E di Emozione: la pedagogia socio-affettiva. Seppur tra tante difficolta, la scuola esprime qua e là “piccole isole in cui fortunati microclismi hanno permesso che la fiamma motivante degli insegnanti non si spegnesse, che non si abbandonassero ambizioni educative”. E’ in questi luoghi che trova spazio la pedagogia socio-affettiva, che si ispira alla psicologica umanistica, al pensiero e alle opere guida di Carl Rogers, Abraham H. Maslow e Thomas Gordon. Una pedagogia attraverso la quale i ragazzi imparano a riconoscere i propri sentimenti, in sé e negli altri, a dar loro un nome, a gestirli. Una pedagogia che vede il suo cuore pulsante nei circle-time, momenti nei quali i ragazzi apprendono a relazionarsi, a fissare e rispettare le regole di convivenza in classe. Una didattica che vede le insegnanti in primo piano, chiamate prima di tutto a condividere il quadro di valori che tale didattica sottende e chiamate […] attraverso l’esemplarità e la coerenza del loro comportamento a porsi da faro e guida dei nostri ragazzi. Peccato siano ancora esperienze rare, perle sparse in un oceano troppo grande
Credo che il primo passo decisivo da compiere sia quello di sbarazzarsi di quanto resta ancora in vigore della riforma Gentile. Bisognerebbe abolire la distinzione – ancora, a distanza di più ottant’anni, fondamentalmente classista – tra licei e istituti tecnici e professionali e introdurre un triennio obbligatorio e soprattutto uguale per tutti. In seguito, un biennio di avviamento “professionale” – di concreto avviamento – o agli studi universitari. E ancora: fare in modo che ci sia una sostanziale continuità tra scuole primarie e secondarie, anticipare di un anno l’ingresso alle elementari, ripensare la scuola materia. Prima di parlare relativamente al diritto all’istruzione di quelle “conoscenze e capacità necessarie” bisogna garantire gli strumenti adeguati, dall’ordinamento scolastico alla qualità dell’insegnamento. E’ una questione complessa, tanto per quel che riguarda le discussioni sul metodo e sull’approccio quanto soprattutto per i criteri di preparazione e di selezione del corpo docenti: criteri in base ai quali si definisce la funzione sociale dell’insegnante. Dire che verranno puniti gli insegnanti “fannulloni” è sconcertante perché non solo non si sa bene in cosa consista il “contrario di fannullone”, ma soprattutto perché non si dubita neanche per un momento se questo insegnante non possa, alla prova dei fatti – mettici la personalità una scarsa preparazione ecc ecc – rivelarsi nient’altro che un “fannullone”.
Le innovazioni di Fioroni, retrograde, illuminate o meno, sono poco più che palliativi; il problema resta alla radice. La rinnovata attenzione alla grammatica, a Dante, a Einstein non può – non vuole? – certo scongiurare il vizio di fondo dell’istruzione e, cosa peggiore ma inevitabile, della società italiana: il lavoro intellettuale sta e starà sempre una spanna sopra a quello manuale. Quando invece uno stato che si faccia garante del diritto all’istruzione dovrebbe mettere ogni cittadino nelle condizioni di ritagliarsi un proprio spazio, di ricoprire un ruolo, una funzione conforme alla proprie capacità e attitudini. Senza etichette e “gradini” di sorta: come se l’ing. preposto al nome non stesse ad indicare altro, al pari di un qualunque altro mestiere, che la garanzia di un servizio. Lo so, è pura utopia: ma mi fa un po’ di sensazione vedere la gente che si lamenta per le facoltà a numero chiuso quando le “statali” sono sempre più indebitate e inefficienti – soprattutto qui al meridione – e le “private” sempre più care e meno meritocratiche, per non dire di peggio.
Io, che ci lavoro nelle scuole di Stato, dico che ogni paese ha il sistema scolastico che si merita. E non credo affatto, come tanti colleghi, che si tratti di una mera questione salariale; non credo che la stessa classe docente impegnata oggi a fare educazione in questo paese insegnerebbe meglio per il semplice fatto di trovarsi qualche soldo in più in busta paga. Come non credo che si tratti semplicemente di tornare indietro per insegnare a “leggere, scrivere e far di conto” (come sembra suggerire il Ministro con la faccia pacioccona di chi chiede consenso a destra e a manca). A me pare che bisognerebbe trovare insegnanti emotivamente pronti a tenere aperto un dialogo educativo con le nuove generazioni, preparati ad apprendere e far apprendere in un clima collaborativo, capaci di fare di ogni lezione un laboratorio denso di nuove esperienze e pronti al momento giusto anche a dire qualche no ben motivato. Ma questa Italia in cui viviamo non mi sembra il brodo di coltura adatto per preparare insegnati di questo tipo. A scuola sono più frequenti le lezioni di ipocrisia dell’insegnante di turno chi ti fa il sermone e poi è il primo a infrangere la norma, di chi ti dice che non si può usare il telefonino in classe mentre squilla il suo, di chi ti urla che devi stare calmo o chiede un rispetto che non sa dare.
Insomma, faccio autocritica, un altro esercizio poco praticato; qui si è più soliti fare a scaricabarili, con l’università che dà tutte le colpe alle scuole superiori, le superiori alle medie, le medie alle elementari, le elementari agli asili, gli asili alla famiglia, la famiglia a tutto il sistema scolastico e ai maledetti professori che hanno tre mesi di vacanze all’anno e ce l’hanno con il loro figlio e sono tutti frustrati perché se non si mettevano a fare un altro mestiere più serio e più redditizio, porca miseria!
errata corrige
perché se no si mettevano a fare un altro mestiere più serio e più redditizio, porca miseria!
Il problema della scuola, caro aitan e caro scurati, e cari tutti, è lo stesso da almeno trent’anni – da quando ci ho messo consapevolemente piede io, prima da studente di liceo classico (tralasciamo gli anni precedenti che furono in parte incoscienti), e poi dopo la parentesi universitaria da docente. La scuola fa paura vista da tutte e due le opposte sponde. Sarebbe meglio provare a capire perché. Ma è proprio questo il grande mistero. Quello attorno al quale con discorsi magniloquenti si gira attorno da sempre. Cosa è accaduto? Il mondo è cambiato. La scuola tenta tuttora di non cambiare! Prova a proporsi in forme diverse, prova a spolverarsi addosso un’aria di novità che ogni volta è pura veste – anzi sottoveste, anzi peggio: una vestagliaccia come direbbe Carlo Verdone. La scuola non cambia mai nella sostanza. Perché c’è gente che vuole tenere sempre lo stesso giorno libero e pur di non perderlo non cede sulla questione (per alcuni istituti vitale) della ‘settimana corta’ (con giornate più lunghe però!) La scuola non cambia perché nelle scuole ci sono i baretti che vendono robaccia cancerogena (ma no, peggio!: soporifera e colesterogena) con i baristi che si comportano con gli studenti come farebbero con i camalli dell’angiporto di Genova abituati a sbevazzare birra o forti alcoolici e a giocare a carte e a dadi, bestemmiando a pieni polmoni (sempre i baristi). Nelle scuole ci sono bidelli che non svolgono quasi nessuna delle mansioni per cui sono pagati, e si lamentano per prevenire critiche. Ci sono impiegati amministrativi che con i docenti insultano gli alunni e con gli alunni insultano i docenti. Ci sono docenti che sono forze della natura solo perché quando poi hai davanti gli alunni che sono creature, potrebbero essere le tue, ti rimbocchi le maniche e fare scuola è persino una magnifica avvetura – anche se intorno sono solo macerie e coordinarsi in azioni didattiche perlomeno unificate almeno per consiglio di classe è decisamente una chimera. La scuola deve essere riorganizzata. Senza demagogia. Caro Fioroni, anche lei mostra di non averci capito granché. La riforma dev’essere profonda. Deve consistere nella seria organizzazione di quella funzioe sociale vitale che è la trasmissione dei saperi, la coltivazione delle competenze, la valorizzazione delle qualità degli studenti (i loro meravigliosi, innegabili talenti!) e il rafforzamento in quelle aree in cui sono meno versati o peggio disposti o indisponibili. Chi è il docente? Il docente è un coach, un allenatore, una guida. Questo presuppone un patto, tra docente e gruppo classe, che è personale e istituzionale. Non può seguire uno solo dei due corsi. Tutte e due le parti del patto devono essere condivise e coltivate sia dal docente che dagli studenti. Se questo patto non si instaura nulla sarà possibile. Perché non ci sarà stima reciproca, non ci sarà piacere di stare insieme, non ci sarà voglia di sfidare le difficoltà perché non ci si sentirà alleati, ma avversari. Ci deve essere un contenitore-scuola che ripristini questo tipo di relazione, che è il mattone base. Tutto il resto sono chiacchiere.
Caro Sundance, provo simpatia per la tua passione ma della tua lettera ho capito poco.
Insomma, che si deve fa’ ? Tu dici: “Ripristinare il patto” Mi domando, è mai esistito questo patto, quest’alleanza fra studenti e insegnanti ? A me non risulta.
Ai miei tempi…sì proprio, ai miei tempi la scuola funzionava così:
si andava a scuola come alla guerra, il professore era il nemico, da sconfiggere in due modi, o ingannandolo o studiando.
Se non era in gamba potevi gettargli fumo negli occhi e cavartela senza sapere la sua materia, se era in gamba dovevi studiarla e la imparavi.
Se non eri capace di fare queste due cose, bocciavi.
Se incontravi un certo numero di insegnanti in gamba e non bocciavi, uscivi dalla scuola avendo imparato un numero sufficiente di nozioni basilari e un passabile metodo di ragionamento.
Questa era la terribile scuola d’una volta, era una scuola ideale ? Mai più, era stressante, autoritaria e perpetuava l’ingiustizia, chi partiva svantaggiato peggio per lui.
Però produceva un cospicuo numero di cittadini di discreta cultura ed era anche un efficace veicolo di riscatto sociale, se era tenace o intelligente anche il figlio dell’operaio poteva laurearsi.
Oggi, dopo quarant’anni di riforme e buone intenzioni, teorie sociologiche e pedagogiche, la scuola sembra produrre contemporaneamente ingiustizia e bassa qualità, certificate dalle statistiche sull’abbandono e dalle classifiche internazionali.
Altre chiacchiere ? Altre “riforme profonde” ? E se le chiacchiere stessero a zero ? E se ricominciare dalle tabelline e dalla grammatica sia l’ultima disperata (visto la società che c’è fuori e i danni fatti finora) chance per ridare un po’ di senso a tutto il baraccone dell’educazione italiana che ormai gira a vuoto ?
E chi non le impara, tanto peggio, se scuola per tutti vuol dire ignoranza per tutti, è una presa in giro e basta.
Intendiamoci caro Sundance, mentre dico ste cose non ci credo nemmeno io, magari hai ragione tu, ma tutto mi par meglio delle chiacchiere che sento da decenni (e che denunci anche tu) mentre tutto va in sfacelo.
Caro Nautilus, il ‘patto’ che rievocavo è quello che noi docenti ‘addestrati’ alla didattica riusciamo a stabilire con i ragazzi nonostante l’ostilità dell’ambiente in tutti i sensi. In genere se la scuola eroicamente procede comunque, lo si è ripetuto (piuttosto sconsolatamente) molte volte, è proprio perché docenti e studenti riescono a ‘patteggiare’ la convivenza e collaborazione nel progetto pedagogico sulla base di quel genere di ‘accordo’ (tra gentiluomini, altro che).
“Che dovemo fa’?”, chiedi giustamente con tono accorato.
Dovremmo creare una ‘struttura-scuola’ che rendesse l’attivazione di quel patto non solo risultato di eroismo ma prassi (me la concedi questa parola?) legata all’ambiente e alla sua organizzazione interna. Una scuola per esempio che funzioni 5 giorni su sette dalle 9 alle 16, e poi tutti via a fare altro. Una scuola in cui la tecnologia divenisse pate integrante del lavoro, e il lavoro fosse proprio portato avanti, gomito a gomito, dai docenti con le rispettive squadre di ragazzi. E ci fosse una tale affezione reciproca che ogni tanto si potesse andare insieme al cinema al teatro in una biblioteca a vedere una mostra non come dovere al quale sfuggire (magari contando sull’uscita come vacanza o erranza per negozi) ma come appassionata avventura condivisa. Una scuola in cui la sfida del voto del buon rendimento del saldo del debito fosse una partita anzi un torneo di sano agonismo. Una scuola PULITA e ben organizzata. Organizzata al millesimo. Non lasciata alla buona volontà dei volenterosi che poi si logorano e diventano pessimi oppure se capiti col non volenteroso o già logoro quindi pessimo ti ritrovi buggerato!!!