Piccola pausa, fatta di letture e di navigazione: ieri sera, su Facebook, ho appreso di una vicenda di certo piccola, altrettamento certamente sconcertante.
Avviene che una scrittrice cerchi un editore per i suoi racconti. Fin qui siamo nella normalità. Premetto che con questa scrittrice, che si occupa anche di uffici stampa, ho avuto solo qualche fuggevole contatto via mail: non la conosco, non so se i suoi racconti siano o meno adatti alla pubblicazione, non so se scriva cose interessanti o trascurabili.
Non è questo il punto.
Alla scrittrice viene proposto un contratto di pubblicazione da una casa editrice che si potrebbe definire medio-piccola. A condizione “che lei prepari la piazza su Roma”. Riporto le parole dell’editore stesso così come sono state lasciate nei commenti all’accesissima discussione che si è svolta su Facebook.
“Lavorare su Roma, su Milano, su dovunque abiti un nostro autore, è una cosa che chiediamo a tutti. Abbiamo bisogno di poter contare sui nostri autori anche per la promozione, perché abbiamo forze ridotte. Funziona come una “banca del tempo”, io ne dedico tanto a te e al tuo libro, alla sua revisione accurata eccetera, e tu ci dai una mano sulla comunicazione. È così folle? Chiaro poi che se l’autore non c’è, pensa solo al suo libro e si fa gli affari suoi, vuol prendere un passaggio e via, l’editore si fa una domanda e si dà una risposta”.
Questo è inquietante. Un editore ha tutto il diritto di non pubblicare un testo (infatti, i racconti della scrittrice non verranno pubblicati), ma il rifiuto va legato alla qualità del testo stesso e non alla disponibilità dell’autore di farsi ufficio stampa, o promoter, o esperto di comunicazione, sia pure del proprio libro.
Più avanti, lo stesso editore precisa:
“come abbiamo spiegato altrove, la pubblicazione dell’opera era condizionata alla presenza dell’autore. Naturalmente non vale per tutti gli autori, ma specie per i più giovani e gli emergenti, che sono degli sconosciuti, non poter contare sulla disponibilità dell’autore a battersi per la promozione del suo libro ALMENO nella propria città di residenza rende le cose un po’ difficili”.
Qui lo sconcerto aumenta. L’emergente, qualora desiderasse pubblicare con Transeuropa (di questo editore si parla infatti: anche se, come da precisazioni successive, esclusivamente in rapporto ad una specifica collana), deve essere disponibile ad autopromuovere il proprio libro? Forse c’è qualcosa che mi sfugge nelle dinamiche attuali. Perchè è evidente che accompagnare un testo è pratica importante, è occasione irripetibile di condivisione e comunicazione. Ma non è un obbligo. L’unico obbligo di un autore è scrivere. Il resto spetta all’editore. Anche trovare, come nel caso della collana in questione, il gruppo musicale destinato ad accompagnare il testo.
Ho trovato queste informazioni in una bella, lucida nota di Seia Montanelli, che mi auguro sia leggibile anche da chi non è iscritto a Facebook.
Non intendo in alcun modo fare un atto di accusa: semplicemente, sto cercando di capire come stiano mutando i rapporti fra autori e piccoli-medi editori. Sempre considerando lo sfondo, di cui si è già parlato: il numero delle novità pubblicate è altissimo, il ciclo vitale di un libro è sotto i trenta giorni.
Giulio rispondimi a questo perché il rilievo del mecenatismo m’interessa: cos’è l’editore per te? Io ho più volte detto cos’è per me.
Nota legale per la Lipperini: la Borghese ha pubblicato su questo sito uno stralcio di corrispondenza privata sottoposto alla legge della privacy. Ti prego di rimuoverlo e di fare la stessa cosa se dovesse ripetersi.
Naturalmente rimuovo. E mi chiedo chi stia alzando i toni, qui.
Alla nota legale, soccombo.
Non ho alzato i toni, tu per prima hai posto una questione legale “mattutina”. Grazie comunque.
Veltroni, ex ministro della cultura e si presume molto molto utile per Einaudi, pubblica un orribile libretto – poema! – sull’Heysel per i sunnominati. Kowalski (gruppo Feltrinelli) pubblica i diari di Tiziano Ferro preceduti dal suo outing, molto molto utile. Mondadori – beh c’è l’imbarazzo della scelta.
In compenso non mi risulta che i gruppi di cui sopra pubblichino Giovenale, Annovi, ecc. ecc…
Ma di che state a parlare???
Par condicio, chiunque tu sia, sai benissimo che stai fornendo un’informazione parziale: accanto ai titoli citati si pubblicano anche testi importanti e anche testi di esordienti.
E tirare in ballo le cattive pratiche degli altri non giustifica nulla. E nessuno. “Piccoli editori do it better” è lo slogan che si è diffuso per anni. Non è necessariamente vero, come non è necessariamente vero che tutto il male sia nelle major.
Qui si vuole parlare di una prassi trasversale, non di chi la mette in atto.
Avete preso il capro espiatorio sbagliato, dai. Passate ad altro, ci fate più bella figura.
@Par condicio, chiunque tu sia: qui parliamo di deontologia professionale. Che non c’entra nulla, lo si è detto, col pubblicare libri belli o brutti.
carissimi,
levate pure lo stralcio della mail di milani e lasciate che la miopia di un editore e le sue menate restino invece a galla. e che continui a dare/dire notizie imprecise circa il nostro “accordo precontrattuale” e altro.
come sempre emerge che la trasparenza non è una caratteristica dell’editore rispetto al nostro rapporto.
perché IO NON HO ALCUN PROBLEMA A MOSTRARE IL CARTEGGIO?
e lui Sì?
e allora, vada bene, che possa essere un caso isolato (anche se già altre persone sono apparse lamentandosi di avere avuto rapporti strani con lo stesso editore) MA un editore non DOVREBBE MAI cadere in queste scivolate, che mostrano chiaramente una copetenza discutibile o un modo di fare editoria tanto per.
c’è una differenza, o almeno dovrebbe esserci tra STAMPATORE e EDITORE. Oggi molti sembrano dimenticarlo. ma a questo punto me ne tiro fuori perché non ho proprio più nulla da dire né da dare a una conversazione in cui l’editore fa cancellare uno stralcio di una sua mail mentre lui a spada tratta racconta le sue verità.
siamo ai limiti del ridicolo!
A questo punto si delineano secondo me tre piani distinti del discorso: 1) di una casa editrice che si doti di un comitato di lettura preposto al giudizio sulla qualità dei testi, e che ne deliberi la pubblicazione, possono essere sindacabili le singole scelte ma non la prassi editoriale complessiva (e dunque il nesso che Malesi non vedeva, io invece lo vedo eccome); 2) assodato che una casa editrice piccola necessita per statuto della collaborazione degli autori per la promozione dei testi e che la possa (e in certi casi la debba) chiedere in forme più o meno esplicite o vincolanti (dove il grande editore, come si ricava dall’intervento di Mozzi, può consentirsi di regolare tali forme per contratto), non si vede perché da tale impegno/investimento promozionale debba guadagnarci di più dell’autore, che invece, per esperienza personale, ne trae comunque visibilità e relativa autorevolezza (un conto è presentare ai critici – veri arbitri della qualità dei testi di poesia, dove nella narrativa lo è il mercato- il dattiloscritto dei propri testi, appunto, un conto è il libro del piccolo editore più o meno accreditato; 3) la richiesta di prestazioni non retribuite (o scarsamente retribuite) agli autori ancora alle prime armi è prassi diffusa e largamente accettata in ogni settore della formazione e in ogni ambito del lavoro intellettuale: presso le case editrici grandi si chiama ”stage” o ”praticantato”, e io ne ho svolto più d’uno (al tg1, tanto per dire, da neolaureata aspirante giornalista), senza la minima forma di retribuzione, e anzi, con le spese di spostamento a mio carico. Se siamo arrivati al precariato come condizione istituzionalizzata non è solo per la legge Biagi, ma anche perché c’è un’intera generazione che queste pratiche le ha accettate, in attesa del proprio tornaconto (=posto di lavoro) stigmatizzandole solo a posteriori, quando la condizione preliminare di sfruttamento non sia stata giustificata dall’esito. Scusate, anche questo è OT, probabilmente, ma, ripeto: non sono questi i settori della vergogna e dello sfruttamento. L’università, anche quando non era indebitata o soggetta a tagli rovinosi come oggi, ha sempre chiesto impegni di questo tipo ai giovani laureati (che li hanno regolarmente accettati): vogliamo parlare dei cosiddetti ”cultori della materia”, che si sobbarcano centinaia di esami a titolo ovviamente gratuito, dei contrattisti che fanno corsi universitari per 1500 o di quelli che ormai li fanno gratis, perché non ci sono più manco i contratti? E dunque, ri-domando: lo scandalo oggidiano è il piccolo editore che tira a campà?
«e allora, vada bene, che possa essere un caso isolato (anche se già altre persone sono apparse lamentandosi di avere avuto rapporti strani con lo stesso editore)»
Isabella, perché parli di altri casi? Quali sono gli altri casi, quello lamentato da Donatella Brindisi? Ripeto qui quanto è già stato risposto dall’ufficio stampa nella nota di Seia. Dontalla Brindisi ha ricevuto una regolare lettera d’incarico, non abbiamo trovato accordo sulla data d’inizio del rapporto perché lei voleva che datassi dal primo gennaio, quando gli accordi erano stati presi a cavallo delle vacanze di Natale del 2009 e non vedevo perché non far cominciare il rapporto lavorativo, quello di semplice supporto a un ufficio stampa che già esisteva, prima che questo fosse iniziato. Da lì i rapporti si sono raffreddati, le ho pagato una mensilità per il lavoro che lei sosteneva di aver già messo all’opera, e stop. La stessa Donatella, in seguito, mi avrebbe più volte messaggiato con saluti e complimenti per le idee e il catalogo che stavamo portando avanti. Per dire quale altra “vittima” del nostro malcostume sia questa.
No, Gilda, lo scandalo non è il piccolo editore che tira a campare. E’ un sistema che viene accettato anche dal piccolo editore che tira a campare, però. E per questo è giusto parlarne.
(Io sono chiunque): non parlo di testi buoni o cattivi infatti. Mi riferisco alla categoria di “scrittori utili” proposta dalla padrona di casa.
La padrona di casa ha semplicemente fornito una definizione ad una prassi.
Io faccio i conti con la realtà, Lipperini. Se l’invito è a desistere, a lasciare che siano solo i grandi gruppi editoriali a occuparsi di cultura in questo paese, perché i piccoli non hanno i mezzi o la patente di guida, non lo accetto. Sei tu che stai travisando la realtà, a partire da un caso che non esiste, volendo dimostrare qualcosa che è chiaro come il sole, e non dipende certo da me. Che colpa ho io se le raccolte di racconti e di poesia, o i testi degli esordienti, non hanno spazi né in libreria né sui media. Che colpa ho io se riesco se per fare la promozione di un libro, anche solo per organizzare una presentazione, devo contare sulla collaborazione dell’autore? Tra l’altro ti ho già spiegato come la penso, lo ribadisco qui: «facendo l’editore, ho contezza dell’esistenza di una relazione tra merito dell’opera e contesto (letterario) in cui un autore si muove, vive, produce la sua opera. Questa relazione precede l’opera, e in qualche modo la presenta. (…) Infatti ho la riprova statistica, per così dire: quando un autore mi presenta un testo interessante, 99 volte su 100 mi è stato presentato da un altro scrittore, o da un agente letterario, o da un critico o da un altro editore. Come si spiega questo fatto?»
Su questo, le (frammentarie) risposte della pubblica accusa non hanno brillato per lucidità e per coerenza, almeno finora.
Milani, la pubblica accusa non esiste, e gentilmente non travisiamo: conosco case editrici piccolissime – il cui ufficio stampa ha postato qui la sua testimonianza e a cui tu hai risposto non proprio in modo cortese – che lavorano in tutt’altro modo.
Come si spiega questo fatto?
Son buoni tutti a negare sulla parola… E comunque, citami la frase in cui avrei parlato male di questo editore piccolissimo…
Ho letto direi tutta la discussione, segnalatami da un amico, e vorrei fare una considerazione forse apparentemente OT: mi sono trovato in molti casi a commentare – o rispondere a commenti – in thread molto densi e battagliati: su questioni di teoria letteraria, in linea di massima. Si attiva spesso una tensione fortissima (dunque) anche là dove non si discute di prassi.
Qui credo sia diverso. E che la tensione sia logica. Ma allora, se anche e perfino per il suddetto ‘tipo’ di thread (forme, stili, scelte testuali) mi è capitato qualche volta di invocare quei “tratti soprasegmentali” (intonazione di voce, gesti, sottolineature di toni nello sguardo, presenza) che possono davvero in un momento chiarire e sciogliere o riannodare o ‘spiegare’ una vicenda, a maggior ragione forse qui, in questa sede, ipotizzo, non c’è / non ci sarebbe e forse non ci sarà modo – trattandosi davvero di prassi – di ragionare e anche discutere (e perfino di rimanere su posizioni opposte) se non attraverso un confronto de visu; o – in qualche modo – non totalmente pienamente ‘indiretto’. Un modo, cioè, che non comporti tribunale, ok, o altra forma di ‘scontro’, ma nemmeno mail, rimpalli (sensati ma troppo numerosi) di riferimenti a conversazioni precedenti, interpretazioni/sovrainterpretazioni, tutti movimenti della discussione integralmente confinati nello scambio dialogico ‘tipografico’, solo tipografico. (E, ovviamente, del tutto legittimamente tipografico. E’ chiaro).
Voglio dire: qui sono in campo, mi sembra, due fronti (termine non azzardato) radicalmente opposti – chiamati in causa in relazione a una questione non minima (asetticamente, credo sintetizzabile: “può o non può un editore *suggerire* o *chiedere* a un autore di testi di tipo xyz [=non romanzi, non di intrattenimento, non ‘di genere’, non saggistici] un impegno quale che sia nella diffusione del proprio libro? e in che forma?”).
Sono dunque e come minimo tre le linee, ovviamente legate: posizione di Transeuropa (che fra l’altro ha pubblicato e promuove un mio libro), posizione dell’autrice (che saluto, conoscendola via web e avendone letto un racconto, che ho apprezzato), e questione suddetta.
Non ponendomi OT, dunque, precisato quanto sopra, il mio suggerimento (io mi escludo, ché tra 20 secondi se non mi rimetto a lavorare mi licenzio da me) è: se davvero ai dialoganti stanno a cuore *tutte e tre* le linee che ho nominato nel paragrafo precedente, e se in parallelo è una verità o piattaforma effettiva di discussione comune che state cercando, anche per criticarvi perfino più aspramente di quanto sia accaduto fin qui, NON ci sarà altro modo per voi di discutere effettivamente (e umanamente: ché web, lo ammetto da web-addicted, è troppo recente marchingegno per essere anche pienamente *umano*) se non de visu. (Che può anche voler dire *via skype*). (Che io non ho, però: dunque potrei sbagliare; ma lo cito, come – immagino – elemento utile).
Sempre su un piano (che personalmente considero) umano, mi sembra assurdo – se non proprio impossibile – che le tre linee di cui sopra siano poste nei termini in cui le vediamo snodarsi negli oltre 150 interventi apparsi, portando la discussione così a fondo nel contrasto, e che allo stesso tempo la vicenda non arrivi a un chiarimento o confronto che stabilisca un qualche (suggerito, invocato) “piano comune”, piattaforma, base, di discussione (ripeto: anche nuovamente aspra, ma diversamente impostata).
Accade – se è umano – che un discorso si svolga tra persone in carne e ossa, quando arriva a un dato punto di (diciamo così) “gravità”, peso, spessore, tensione. Non so se condividete questo mio punto di vista. L’ho espresso nel rispetto di tutte le persone che vedo qui coinvolte in quello che – come altre o infinite volte accade nei thread – mi sembra un andamento non-più-dialogico, non più fondato su ragioni ma su posizioni – come accade in guerra. (Che può anche aver senso, se è di forme e figure retoriche che parliamo, ma che – ripeto – mi pare assurdamente compresso e perfino [per paradosso] smaterializzato se riferito a storie personali, vicende precise, che diventano ambito e ‘luogo’ anche di molti altri leggenti).
Nota legale: non esiste alcuna norma che vieti la pubblicazione della propria corrispondenza, nemmeno se l’altra parte non è d’accordo. L’unico divieto vige per medici e avvocati, coperti dal segreto professionale.
Signori, dopo due anni di diffide certe cose mi escono dalle orecchie, e alla fine mi hanno dato ragione persino gli avvocati degli editori di cui avevo pubblicato le mail.
Marco il fatto è che non ci sono posizioni personali da difendere da parte mia (e da parte di Loredana), non stiamo parlando di qualcosa che ci riguarda direttamente e non abbiamo sassolini nelle scarpe da toglierci, non in questo frangente almeno, ma invochiamo una riflessione su un sistema che è evidentemente molto radicato, e di cui nessuno parla, e per una volta che viene fuori, che se ne parli! Non ci sono capri espiatori, non ci sono scandali, non ci sono vittime sacrificali. C’è un malcostume (chiamatela prassi, status quo, contingenza, come volete, ma il nome che prenderò di volta in volta, non cambia il fatto che sia una situazione inaccettabile a guardarla con obiettività e buon senso), del quale gli autori, appare chiaro qui, in gran parte sono conniventi perché pur di pubblicare farebbero qualsiasi cosa, che va stigmatizzato, e non vedo come parlarne via skype o davanti a una tazza di caffè modifichi i termini della questione. Peraltro come ho più volte detto non ho nulla contro Giulio, se qualcuno fosse venuto da me raccontandomi un’altra storia con altri interlocutori e se poi si fosse esposto pubblicamente, io avrei raccontato quella vicenda, finora ho solo decine di confessioni in camera caritatis che non posso rendere pubbliche perché hi le ha raccontate non vuole esporsi.
Possiamo parlarne al telefono o in teleconferenza, al bar o allo stadio, non cambia nulla.
Peraltro noto che si continua a parlare di promozione post pubblicazione, qui era tutto preventivo, non è un particolare da dimenticare o trascurare, eh.
Seia, permettimi, su quel “non cambia nulla” non sono d’accordo. Sempre che sia nostro interesse mettere al centro del discorso l’oggettività dei fatti e delle loro conseguenze.
(Almeno: il mio disaccordo parte dall’esperienza che ho; solo di/da questa posso parlare).
Quella “oggettività dei fatti” non può prescindere dalle soggettività dei parlanti, per il semplice fatto che i fatti partono da quelle soggettività, e su quelle si riverberano.
Questo lo dico in maniera, spero (o almeno è nelle mie intenzioni), esterna. Da testimone di quello che vedo – *non per la prima volta* – accadere in rete.
Mi spiego meglio. Non posso invocare esempi matematici, su cui taccio, ma:
la mia persuasione spero non superficiale né generalizzante, è – da lavoratore (in tutti i campi materiali e immateriali che ho attraversato) e da frequentatore della rete – che nel “sistema thread”, per certe discussioni, non esistono o non possono in alcun modo darsi “soluzioni” o “chiarimenti” che restino *solo all’interno* del sistema citato. Meno che mai se implicano questioni che nascono da fatti precisi (e *soprattutto* se in quei fatti non sono coinvolte tutte le persone che pure ne parlano), e ancor meno se da questi fatti si vuole partire per una discussione più ampia che riguarda una questione generale.
A sostegno di quanto dico nei due commenti postati sopra, inserisco qui un ulteriore post, esclusivamente per elencare alcuni elementi relativi alla mia esperienza con Transeuropa.
In che senso “a sostegno”? Nel senso che sono assolutamente convinto che i suddetti elementi *entreranno* nel thread senza (io temo) *contribuire* al medesimo. Almeno, è il mio timore. Anyway, contro questo stesso timore, ecco gli elementi, annotati ora:
*
una premessa: da autore che ha pubblicato recentemente con Transeuropa, posso elencare alcune note forse utili, e credo condivisibili da diversi autori T.; ma chiedo venia in anticipo se alcune di queste osservazioni sono state già fatte o commentate da altri [btw, mi sembrava poco corretto, da parte mia, non dire che:]
(1) il contratto con Transeuropa viene stipulato regolarmente, firmato dall’editore e rispedito all’autore. così per me è stato. devo anzi dire che Giulio Milani si è fidato del mio ok al contratto quando ormai praticamente il libro era in stampa. suggerisco, cioè, che c’è stato un ‘quantum’ significativo (almeno io l’ho riscontrato) di rapporto imprescindibilmente fiduciario e non scritto (a vantaggio mio) che si è messo in moto. non mi sono state fatte promesse campate in aria e anzi è stato preso e mantenuto un impegno anche prima che io stesso firmassi un accordo.
(2) non mi è stato chiesto per email ecc. di “impegnarmi” in nessun modo, in senso promozionale. ma il contratto lo comprende. il fatto è che – ripeto – T. ha stampato il libro anche *prima* che firmassi il contratto, come dicevo. ergo, nessun ‘obbligo’. ovviamente e comunque mi sono impegnato a promuovere il libro, nel mio piccolo e come potevo, perché non solo credo in questo editore in particolare, ma perché è lo stesso impegno che dedico a tutti quelli che lavorano sodo (e a tutti gli editori che hanno riposto fiducia in me). non trovo scandaloso o strano che un autore che non propone un romanzo o un saggio o un’opera prevedibilmene ‘di cassetta’ faccia (non certo ‘come obbligo’) un minimo online e offline per proporre o segnalare il proprio libro, SE può, e come può; né che si senta chiedere dall’editore un tot di impegno di base *dopo* la pubblicazione. (non so però se le vicende di altri siano state diverse. parlo per la mia esperienza, non ho titolo a farlo che per questa, e di questa rispondo).
(3) Transeuropa distribuisce, e bene, il libro; e lo invia, su richiesta, a chi lo ordina.
(4) Milani viene personalmente, quando può, o fa intervenire suoi redattori anche in presentazioni lontane dalla sua ‘area’, per stima del libro, anche trovandosi a volte in svantaggio economico (fare un viaggio dove che sia e pensare di rientrare anche solo delle spese di biglietto pernottamento e panini vendendo qualche copia di un libro che costa 15 euro significa giocoforza che l’editore crede nel suo lavoro e nei libri, penso, al di là dei bruti rientri economici). (lo ha fatto a RicercaBo per Pusiol, lo ha fatto recentemente per me e per altri a Firenze e a Roma; ma la redazione e Milani sono letteralmente sempre in viaggio, a quel che so. dunque non ritengo sia vero che non fanno [come devono e sanno di dovere] il loro lavoro di promozione; e non mi sembra un’enormità che chiedano un tot di suggerimenti e collaborazione ai loro autori. ovviamente: quando saranno diventati una macrosocietà quotata in borsa, e avranno uffici stampa in venti città europee, il contesto sarà differente).
(5) Transeuropa ha spedito il libro ad alcuni critici. abbiamo concordato un elenco e ci siamo attenuti a quello. lo avrebbe fatto anche se non lo avessi chiesto; lo deduco da quanto ci siamo scritti nel tempo.
(6) il lavoro on line è piuttosto fitto: il sito di T. è uno dei più aggiornati, in termini di ufficio stampa. mi è capitato di trovare sul sito rass. stampa dei riscontri su alcuni libri prima ancora che me li comunicassero gli autori medesimi.
@Simone Ghelli: d’accordo, caporalato intellettuale non vi piace, soprattutto a Claudia b., che collabora con Scrittori Precari e che scrive: “E’ una rivista letteraria in Rete, letta da chi ama leggere in Rete.”. Voi scrivete per diletto, dunque, o vi aspettate qualcosa dai vostri lavori? No perché poi in tutti questi commenti si arriva alla grande questione “CHE SENSO HA SCRIVERE”? Chi lo fa ha urgenze, si aspetta di essere pubblicato, ma magari sono sciocco. Da illetterato io non scriverei nemmeno tre righe su committenza senza essere pagato, lo trovo indecoroso e infatti nessuno me lo chiede, per fortuna. Anche senza committenza vorrei il mio tornaconto. Ci sarà insomma differenza fra blogger o scrittore esordiente che aspira alla pubblicazione? E lo scrittore precario è così libero? Per farsi conoscere non starà dietro ad una recensione letteraria o cinematografica che gli è stata imposta?
Una precisazione per Giovenale: non mi pare che si sia sostenuto, o almeno non da parte mia, che questa è prassi abituale per Transeuropa. Viceversa, si è sostenuto che è una prassi che si sta diffondendo in ambito editoriale.
Nessuno, ripeto, nessuno contesta il lavoro di Transeuropa nè il suo catalogo: si tratta, in questa sede, di un episodio specifico. E la discussione è avvenuta, inoltre, su alcune opinioni di Milani.
Inoltre: personalmente non ho alcun interesse a proseguire la discussione de visu o davanti a qualsivoglia bevanda calda. Alcuni toni on e off line non mi sono piaciuti affatto e, se Giovenale permette, nella mia vita privata intendo concedermi il lusso di scegliere gli interlocutori con cui prendere un caffè.
Naturalmente questo non influisce nè influirà in alcun modo sul mio giudizio professionale sui singoli testi pubblicati da Transeuropa.
Ma ho pieno diritto di trarre le mie considerazioni sul lato umano di questa faccenda. Dal momento che, per strano che possa sembrare, mi interessa anche quello.
Su quanto detto circa i contratti di edizione, di piccoli e grandi editori. Parlo per mia esperienza.
I contratti di edizione seri (parlo anche di editori microscopici) prevedono una “disponibilità DI MASSIMA – nelle forme e nei modi concordati di volta in volta” a garantire la propria presenza nelle presentazioni e gli eventi ORGANIZZATI DALL’EDITORE nonché la piena LIBERTA’ da parte dell’autore di organizzarne a sua volta.
Disponibilità di massima è l’espressione giusta per una forma di collaborazione che avvantaggi sia l’autore che l’editore e che passa soprattutto attraverso un ufficio stampa pagato apposta.
Libertà significa che, se l’autore ha tempo voglia, ha la facoltà di fare DI PIU’ di quanto faccia l’ufficio stampa, non AL POSTO DI.
Non mi pare sia stato questo il caso. No, direi di no.
Lipperini, tu ce l’hai con me da quando mi conosci. Non ho capito perché, francamente. Ma è chiaro che esiste un lato umano della vicenda: ti sto antipatico. Succede. Ne prendo atto. Mi dispiace, perché invece io contro di te non ho mai avuto nulla. Quando mi hai detto che impiegare il nome della Trans Age per la Over Age traendolo dagli studi della tua amica Costanza, che pure avevo citato, per te era plagio e lo avresti scritto dovunque, io mi sono ritirato in buon ordine. Anche in quel caso, se ricordi, arrivarono le note legali. E non da parte mia. Dico tutto questo perché è bene che si sappiano i nostri trascorsi, per il beneficio del giudizio di chi legge.
Milani, per cortesia non usiamo toni patetici.
Visto che hai citato quell’episodio, citiamolo per esteso. Dopo un post su questo blog, dove mi riferivo agli studi di Giovanna Cosenza (Costanza non la conosco) nei quali veniva usata l’espressione trans-age, da Giovanna stessa coniata e su cui stava scrivendo un saggio, voi avete deciso di utilizzare questa definizione per la vostra antologia, senza chiedere preventivamente neanche permesso.
Caliamo un velo pietoso sui toni usati nei confronti di Cosenza, che vi ha contattati, prima che arrivassero la mia mail e la nota legale di Cosenza: a cui si è arrivati proprio per i toni usati.
Questo non inficia il mio giudizio sulla professionalità della casa editrice nè sulla persona: tanto è vero che mi sono successivamente occupata proprio di quell’antologia sia qui, sia in radio, sia citandola nel mio libro.
Utilizzare questi termini e questa strategia, Milani, ora e qui, ha il solo risultato di qualificarti personalmente in modo, credimi, che non ti fa onore. Nè fa onore alla discussione. Chi avrà la pazienza di scorrere i commenti, noterà che sono state poste accuse velate alla trasparenza redazionale di Repubblica, alla pubblicazione dei miei libri e ora anche alla mia personale amicizia con Cosenza. C’è altro da aggiungere? Direi, pietosamente, di no.
Anzi, una cosa la aggiungo: che questo riportare tutto alla generale corruzione del mondo intero (così fan tutti, quegli altri, tanto perfidi) ottiene in effetti un risultato. Quello di sviare il discorso dai suoi intenti originari. Ovvero: cosa sta avvenendo in ambito editoriale nel rapporto editore-autore esordiente.
Volevo poi aggiungere qualcosa circa quanto emerso nella discussione.
Perché un esordiente ci tiene tanto pubblicare con un piccolo editore? (non parlo di quelli che si fanno pagare in denaro o, peggio, in tempo o in lavoro: quelli non li considero editori. Considero editore solo chi retribuisce, anche piccole percentuali, il proprio autore).
Be’, non certo per smania da grande fratello, come mi è sembrato di leggere qua e là fra le righe. Non tutti, almeno. Ma perché:
1) Di solito non può pubblicare con un editore più grande che non lo legge, lo snobba e non se lo fila. E non può rivolgersi a un agente, perché nemmeno gli agenti lo prendono in considerazione. Curiosa, l’Italia, dove gli agenti prendono solo in carica autori già affermati o richiedono cifre esorbitanti per la lettura e la valutazione dei dattiloscritti. Certo, non siamo un paese interessato allo scouting letterario. Il paese di Dante non ha tempo di leggere.
2) Perché un piccolo editore è spesso un’ottima vetrina (Branchie di Ammaniti, su tutti). Sono molti gli autori affermati che hanno esordito nell’editoria “minore”. La quale, a sua volta, fa dunque un ottimo servigio quando punta (non sempre, purtroppo) sulla qualità di una scrittura anche acerba e poi la vende a editori più grossi o ricava denaro da quell’esordio in catalogo che potrebbe nel giro di pochi anni diventare prezioso.
Niente di velato. Io sono un editore indipendente, rappresento la mia situazione: la pagina culturale di Repubblica è un vero “porto delle nebbie”, impossibile capire come funzioni, chi decida cosa e perché. Sono anni che cerco di capire come vengano decise le brevi, per esempio, dove alle volte si parla degli editori di saggistica. Noi facciamo saggistica di qualità dal 2005, ma nelle brevi siamo finiti ben poche volte. Ci trascurate, più avanti vedremo, magari cambierà…
Quando dici “i toni con Cosenza” dici tutto e non dici niente. La verità che siete state informate, il libro vi è arrivato in bozze, poi il delirio. Tu non hai parlato su questo blog del libro, anche se avevi promesso (pubblicamente) che lo avresti fatto, mentre nei hai parlato in un programma radiofonico perché il Centro del libro si è interessato alla cosa. Come vedi c’è altro da aggiungere, e molto. Quanto vuoi andare avanti, ancora?
Milani. Che schifo. Stai insinuando che a Fahrenheit parliamo di un’antologia perchè il Centro del libro ha fatto pressione. Non solo smentisco, ma ti diffido e ti invito a smentire quello che hai sostenuto: quella trasmissione è stata decisa redazionalmente in riunione, senza qualsivoglia pressione.
Davvero, che schifo.
Conosci benissimo i toni usati con Cosenza e li conosco anche io, e molto bene: e quando dici che il libro è arrivato in bozze confermi quel che ho scritto sopra. Non hai neanche chiesto permesso e ti sei appropriato di una definizione e di un concetto.
Quanto a Repubblica, non sono certo io a dover difendere le pagine culturali. Ma “porto delle nebbie” è inaccettabile.
Io non intendo andare avanti su questi toni vergognosi. O la discussione si riporta nei termini in cui è stata impostata, oppure, caro Milani, devo chiederti di smetterla di postare qui.
Ma guarda, non è che coi toni da indignati si acquista più ragione. Io non ho fatto nessuno insinuazione, ho detto le cose che ho scritto. E le confermo. Mi sembra di aver esercitato un normale diritto di critica, mettendo a parte i lettori dei rapporti che intercorrono tra noi, dei nostri trascorsi. Per riempire di significato quel discorso sull’umano e sul personale che hai fatto.
@Vincent:
noi non scriviamo per diletto, semplicemente pensiamo che la scrittura abbia più canali, uno dei quali è internet. Di conseguenza non pensiamo per forza che un autore pubblicato sia migliore di uno non pubblicato (viste le molteplici ragioni che emergono da questa discussione). Hai mai provato a leggere i materiali che pubblichiamo sul nostro blog? Così puoi farti un’idea del lavoro che facciamo. Noi non scriviamo su committenza (sono la minoranza a farlo), ma semplicemente perché sentiamo l’esigenza di scrivere, come la maggior parte di chi scrive. Essere pagati per scrivere significa essere straconosciuti, vendere un sacco di libri (si è pagati innanzitutto per questo, non certo per la qualità). Seguendo il tuo ragionamento nessuno inizierebbe a scrivere, insomma. Il tuo discorso varrebbe nel caso in cui qualcuno (un editore) mi obbligasse a scrivere delle cose ben precise senza poi pagarmi. Forse questa domanda puoi farla a chi scrive sui quotidiani, perché a noi non obbliga nessuno a scrivere…
No, Milani. Tu hai detto che si è parlato dell’antologia “su pressione del centro del libro”. Questo è infamante e gravissimo: la discussione sulla vecchiaia, dove eri presente come curatore, è stata decisa redazionalmente come avviene ogni giorno. Ti diffido, ripeto, dal gettare fango sul lavoro di altre persone e di una trasmissione che non va tirata in ballo in una discussione come questa.
Tu non stai mettendo a parte di nulla: stai infamando e dicendo il falso. Ancora una parola in questi termini e, ribadisco, ti chiedo di lasciare questo blog.
@ Simone Ghelli:
“Essere pagati per scrivere significa essere straconosciuti, vendere un sacco di libri (si è pagati innanzitutto per questo, non certo per la qualità)”
Non è vero! I piccoli editori che riconoscono le royalties ai loro autori esistono. Certo non ti ci compri una casa, ma magari ci copri l’assicurazione del motorino. E ti fa da sprone per andare avanti, dato che in questo schifo di paese non ci sta nessuna borsa di studio per scrittori, a differenza che altrove. Ingoi nebbia e vai avanti. Se lo vuoi con tutta l’anima.
Vedo che quando si parla dei luoghi di lavoro tuoi ti scaldi, dici che tiro fango, sul lavoro di altre persone eccetera. Invece quando sparate su di me e su Transeuropa che effetto pensi di fare? Il tuo è diritto di cronaca, di critica, e la mia è solo diffamazione.
Cmq quando riporti le mie parole riportale almeno in modo esatto. Ti chiedo solo questo, un po’ di precisione.
P.S. sempre a Simone Ghelli:
per il resto concordo su quasi tutto ciò che dici. In particolare sui canali della scrittura e la possibilità di internet.
Forse dobbiamo intenderci sul concetto di “piccolo editore”…
Milani, tu cominci insinuando che vi sia una cospirazione tesa a fare di te e Transeuropa un capro espiatorio; vai avanti asserendo che i criteri da te adottati nel caso di Isabella Borghese siano prassi normale, affermando altresì che essi siano propri anche delle redazioni di testate che non conosci dall’interno, e pur non potendo in alcun modo dimostrare ciò che sostieni; infine, dipingi un indimostrabile scenario di promozione basata su pressioni esterne anziché sulla dialettica interna di redazione che è propria di ogni testata. In nessuno di questi casi hai potuto portare un solo dato probante a sostegno di quanto dici.
Se queste non sono insinuazioni, non saprei come altro definirle.
@ Simone Ghelli:
piccolo editore: fa 10 titoli l’anno. Non può permettersi Torino. E’ abbastanza piccolo? 😉
“nei hai parlato in un programma radiofonico perché il Centro del libro si è interessato alla cosa”.
Sono le tue parole.
Ci salutiamo, caro Giulio: mi dispiace, ma io non intendo proseguire la discussione in questo modo.
Chiedo agli altri interlocutori di rimanere in topic, cortesemente. Da ora in poi qualsiasi riferimento che esuli dalla discussione verrà messo in moderazione.
p.s.: e comunque credo si parlasse di anticipi, non di percentuali sulle vendite…
@ Simone Ghelli
L’anticipo è anticipo in quanto si sottrae alle percentuali rendicontate a fine anno. Avere 500 euro prima o dopo cambia poco.
(Non per me, che sono perennemente al verde, ma questa è un’altra storia 😉 )
Ovviamente non mi riferivo ai “grossi anticipi”, quelli che danno i grandi editori (e che ultimamente servono anche ad alcuni grandi nomi a tutelarsi verso i loro stessi flop).
@Ghelli: ho guardato il vostro blog, ho letto qualcosa. Sono un po’ ottuso, forse, ma non ho cambiato parere. Non di meno spero per te e gli altri che usciate dalla precarietà, prima o poi, se scrivere è quello che volete fare più di ogni altra cosa. Saluti.
Mi sembra ‘verificato’ quanto affermavo nei primi due commenti. N.b.: non ho suggerito caffè da prendere tutti insieme allegramente. Fra l’altro, si possono anche prendere the non tutti insieme (ma solo con alcuni) e perfino cupamente. Ma, insisto, non questo dicevo.
Dicevo che talvolta – non sempre, talvolta sì – all’interno di un sistema che basa le proprie interazioni sulla pura tipografia, sullo scambio verbale esclusivamente scritto, accade che una questione *per il modo in cui* si sviluppa, non sia scioglibile all’interno del medesimo sistema. E sostenevo e sostengo che in questo caso è precisamente quanto è accaduto.
E ho idea che ciò sia confermato da alcuni degli inserimenti recenti.
@Vincent,
ti rispondo anch’io perché mi sembra importante operare una distinzione.
Scrivere su commissione è un’attività retribuita, ovvero un lavoro, che alcuni fanno volentieri, altri no.
Scrivere per il piacere di scrivere, pubblicare in rete per il piacere di pubblicare, senza che ciò sia vincolato a qualsiasi introito derivante da questa attività, è tutto un altro paio di maniche. Senza voler riaprire l’annosa questione “che senso ha scrivere”, direi che le due attività sono molto diverse. Sono diverse le finalità, gli obiettivi, il target, il tipo di scrittura, ecc.
Quando dici “spero per te e gli altri che usciate dalla precarietà, prima o poi, se scrivere è quello che volete fare più di ogni altra cosa”, non vedo davvero in che modo la scrittura possa fare uscire dalla precarietà, visto che il rapporto con un editore non si basa su un contratto di lavoro dipendente a tempo indeterminato – ovvero l’uscita dalla precarietà – bensì su un contratto che si rinnova di tanto in tanto, sempre che si rinnovi. Chi fa lo scrittore di mestiere è precario per definizione (secondo un’idea di precariato che risale ad altri tempi ed altre concezioni, e non è inquinata dalle aberrazioni della L30).
Poi ci sono gli scrittori che svolgono altra attività professionali non da precari, e ogni tanto pubblicano un libro, da cui ricavano dei guadagni.
Il termine “precario” a cui si riferisce il titolo del blog, invece, si riferisce ad altro tipo di precarietà, che se ti interessa puoi approfondire da solo.
Per quanto riguarda me, grazie per l’augurio, mi piacerebbe tanto uscire dalla precarietà lavorativa, ma l’idea che questo possa avvenire tramite la scrittura su commissione mi suona abbastanza comica. Invece, molto più concretamente, mi piacerebbe entrare in ruolo a scuola (versando la ricerca universitaria nello stato in cui versa). Questo per me equivale a “uscire dalla precarietà”.
Scusate una precisazione, ma se l’autore avesse accettato di preparare la “piazza” su Roma sarebbe stato pubblicato lo stesso non ostante il parere contrario del comitato di lettura?
Non voglio parlare della questione Transeuropa (precisando comunque di ritenere che c’è un abisso tra questa casa editrice e un editore a pagamento), ma della questione generale. A me pare che la discussione stia prendendo una piega manichea mentre io, sarà l’età, sono più disponibile a valutare le situazioni caso per caso e a tenere conto delle “sfumature”.
È meglio che un libro sia pubblicato oppure no? Alla fine mi pare questo il problema; come ho detto un po’ provocatoriamente in un commento precedente, credo che si possa tranquillamente fare a meno di tantissimi dei libri che vengono pubblicati ogni anno.
Mettiamo da parte le case editrici a pagamento: sono dei truffatori, e lo sappiamo tutti, non meritano considerazione eccetera.
Ma, a proposito di sfumature, forse sarebbe il caso di distinguere tra piccola editoria (Transeuropa, l’ALET che è stata nominata eccetera) e i tantissimi microeditori italiani che la distribuzione di PDE se la sognano, che operano a livello locale eccetera.
Se quello che io chiamo un microeditore svolge questa attività per passione e praticamente senza guadagnarci, vivendo per sua fortuna d’altro, e con la prospettiva di vendere qualche DECINA di copie (perchè questi sono i numeri in certe situazioni, non dimentichiamolo!) chiede di dargli una mano per la promozione del libro e/o l’acquisto di qualche (sottolineato) copia, per rientrare nelle spese, è poi davvero tutta questa tragedia? Libri pubblicati a queste condizioni (che, certo, nel migliore dei mondi possibili non dovrebbero sussistere) possono finalizzare un hobby, creare reti di rapporti umani, stimolare a scrivere meglio e così via. O no?
Riporto un fatto (non del tutto attinente, ma credo comunque esemplificativo): un ragazzino che conosco ha mandato una sua (dignitosa, per l’età) raccolta di poesie a un noto editore a pagamento, il quale, ovviamente prontamente, gli ha risposto come sappiamo, cioè chiedendogli non ricordo se due o tremila euro; mi ha riferito la cosa, entusiasta, e non è stato facile concincerlo che lo stavano imbrogliando; ora il ragazzino pubblicherà le sue poesie con un microeditore (stampatore?) per hobby al quale l’ho indirizzato, che gli chiede solo le spese vive della stampa (un centinaio di euro, mi pare, per un prodotto ottimamente curato) e gli organizzerà, per passione, un paio di presentazioni locali; il ragazzino è contento, ha ottenuto più di quello che avrebbe ottenuto accettando l’offerta dell’editore a pagamento, magari sarà stimolato a scrivere, a “crescere” eccetera; ma nessun editore lo avrebbe mai pubblicato gratis, per quanto ne so.
Giuseppe, forse a me l’età rende manichea: eppure io avrei consigliato al ragazzino di aspettare. Non necessariamente la pubblicazione aiuta a crescere.
Giulia, qualsiasi risposta ti venga data ora non è verificabile, temo.
Quali sono gli elementi verificabili infatti? Voi avete dato credito a una scrittrice delusa per il rifiuto della pubblicazione. Il punto vero è questo.