Vedo che sorride: perché?
Pensavo a mia zia, cioè a lei, signora Ginzburg. Pensavo a queste scrittrici che non sanno mai assomigliare a una zia. Davvero lei non ha le stigmate esteriori della scrittrice e anche per questo mi piace, ecco.
Ecco. Nemmeno a me le scrittrici piacciono molto. Salvo eccezioni hanno un modo di fare così frivolo, quasi facessero del loro mestiere un costume. Spesso, quando scrivono, non riescono a liberarsi dei sentimenti, non sanno guardare a se stesse ed agli altri con ironia. L’ironia è una delle cose più importanti del mondo, perfino l’amore è sempre mescolato con l’ironia, perfino la conoscenza : ma le donne sembrano non capirlo. Sono sempre umide di sentimenti, loro, ignorano il distacco. Ecco. A me le scrittrici che piacciono sono poche: per esempio la Virginia Woolf di Passeggiata al faro, ed Elsa Morante, e una italiana dell’Ottocento che si chiamava marchesa Colombi e ha scritto un libro che si chiama Matrimonio in provincia, e una vecchietta inglese che si chiama Ivy Compton Burnett che scrive tutto dialogato e con educazione, con malignità, racconta le cose più tremende, le verità più orribili. Mi ha servito molto, lei, perché non riuscivo più a dialogare, in Tutti i nostri ieri non dialogavo per niente. Quand’ero ragazzina mi piaceva la Katherine Mansfield, ora meno. Ha un mondo così limitato, da passerottino; lo racconta con grazia, ma la grazia di un passerottino. Del resto io leggo poco. Rileggo Proust. Ecco.
Alludeva dunque a questo scrivendo nel saggio Il mio mestiere quella frase che mi piace tanto: “Desideravo terribilmente scrivere come un uomo, avevo orrore che si capisse che ero una donna dalle cose che scrivevo”. Scrivere come un uomo: ecco.
Scrivere come un uomo vuoi dire scrivere col distacco, la freddezza di un uomo. Cosa di cui le donne sono raramente capaci. Il distacco dai sentimenti, soprattutto. Non significa scrivere fingendo d’essere un uomo. Una donna deve scrivere come una donna però con le qualità di un uomo. Per questo…
Per questo, direi, ci sono più uomini che scrivono che donne che scrivono; più uomini che scrivono bene che donne che scrivono bene. Scrivere, in fondo, è un mestiere da uomini. Lo riconosce anche lei quando dice: “E poi mi sono nati dei figli e io sul principio quand’erano molto piccoli non riuscivo a capire come si facesse a scrivere avendo dei figli”.
Sì ma sbagliavo. Sì ma poi spiego che si scrive lo stesso. Io per esempio il primo anno che avevo Carlo avevo sempre paura che mi morisse sebbene fosse un bambino floridissimo: e quindi non c’era spazio per scrivere, c’era spazio solo per questo rapporto fra lui e me. Non potevo lasciarlo nemmeno col pensiero. Poi, poi niente. Poi a poco a poco ho capito che si poteva scrivere lo stesso, bastava trovar l’equilibrio, capisce, trovare requie e spazio negli affetti, capisce. Insomma se uno ha davvero necessità di scrivere, scrive lo stesso. E dire io non mi sposo, io non faccio bambini perché voglio scrivere è sbagliatissimo : creda. Uno non si deve privare della vita sennò a un certo punto si inaridisce e non scrive più niente, lo ricordi.
L’ho citata parecchio, questa intervista di Oriana Fallaci a Natalia Ginzburg. Era il 1963, il mondo è andato avanti, le discussioni sulla scrittura anche. Eppure c’è ancora quel dubbio, e c’è nelle stesse scrittrici, nonostante tutto, anche in quelle che proprio dal famigerato pozzo nero riportano bellezza, anche in quelle che, da lettrici, sanno che esistono non pochi autori di sesso maschile che ormai scendono nel pozzo, e ci si trovano bene.
Non la riporto perché è un pezzo di storia, ma perché è ancora un pezzo di cronaca letteraria, e spunto per una riflessione. Basti guardare la fotografia che Susanna Tartaro ha scattato qualche giorno fa, e che mostra la vetrina di una libreria anche prestigiosa, sezione “narrativa femminile”.
Per fare un solo titolo, dove collocherebbero Al di là dal nero di Hilary Mantel, due volte Booker Prize, autrice di un romanzo che ha due donne come protagoniste ma è tutto tranne un romanzo sentimentale?
Buon week end, commentarium, per chi è in zona domenica sono ad Albinea (Reggio Emilia).
Una sezione di narrativa femminile?! Sul serio, ci sono librerie che hanno una sezione di “narrativa femminile”?
Sì cara. Quella fotografata da Susanna è la libreria dell’Auditorium a Roma.
.Non credo che la libreria dell’Auditorium abbia commesso peccato, cara la mia Lipperini (e non dica di nuovo che l’incipit è rivelatorio).
Da un punto di vista logico la marca semantica “narrativa femminile” è giusta: è una letteratura comprata quasi esclusivamente da donne, ed è pure quella che fa bestseller da un punto di vista numerico nell’arco dell’anno. Perciò le due cose coincidono. Il che non vuol dire che in quel reparto vi stia TUTTA la letteratura consumata e consumabile dall’universo femminile, e l’errore interpretativo sta qui. Se fossi una donna perché dovrei urtarmi? Così facendo dimostrerei di soffrire di un complesso che nessuno mi obbliga ad avere: non mi hanno mica detto che quel reparto è il mio ghetto e altre letture mi sono negate. Al contrario, mi hanno specificato cosa voglia dire prendere le distanza da un modello di consumo al femminile, mi hanno dispensato dalla rottura di evitare certi libri, selezionandomeli assieme nello stesso luogo. Cosa chiedere di più? Prima c’era l’harmony, ma non è questa marca semantica non stesse per “letteratura al femminile” e non identificasse la stessa esigenza gastronomica di narrativa ovarica.
Dati i titoli avrebbero potuto chiamarla “narrativa sentimentale 2.0” e sarebbe comunque suonata come “reparto Falloppio”: è sempre letteratura consumata eminentemente da donne, e ha sempre la sua dignità editoriale da un punto di vista economico. D’altronde come comunicare al dominante mercato femminile che di queste letture si pasce, che lì troverà la sua pastura? Perché lasciare spaesata la legittima richiesta di questa narrativa? Come voleva chiamarla? Ovvorre prendersela perché è proprio “narrativa femminile” la marca semantica più appropriata? E non si dica che “allora perché non una narrativa maschile?”, perché non c’è. Ci provi se ci riesce. Se ci fosse avremmo pregiudizio, politically correct applicato: invece in questo caso abbiamo per le donne una condizione più fortunata: una ulteriore specificazione per una scelta d’acquisto più consapevole, per un cliente così esigente e primario come è lo è il femminile, e che dalle statistiche compra e legge più libri (proprio questi, sia specificato).
Piuttosto che rimuovere sotto il tappeto delle etichettature il fatto che c’è un mercato della letteratura-donna così declinato, e che è quello che fa i numeri veri, occorrerebbe capire perché li fa, questi numeri. Sarà lecito chiedersi se all’Auditorium abbiano sbagliato inserendo inappropriatamente ciò che a quella categoria non pertiene, ma non sembra questo il caso.
Al dunque, perché sentirmi urtata come donna per il fatto che la maggior parte delle donne compri in massa questi libri? Cambierò scaffale e andrò a cercarmi altro, comunque conscia che la leggerezza muliebre esiste, magari la condivido, ma non mi appartiene, non siamo sorelle, non devo difenderla, e che come lettrice sofisticata non sono una donna, ma un essere asessuato che trova ottuso e inutile porsi il problema se chi scriva è un lui o una lei. Per chi invece avverta la compulsione a declinare la letteratura al sesso, adontandosi se la media femminile legge quella roba lì, ha più di un problema di genere – e non solo.
Reparto Falloppio, questa è buona! 🙂
Se io fossi una donna (ma corre voce che lo sia) troverei cretino quel che a me pare cretino, e non quello che qualcun altro ha deciso che devo trovare cretino, e mi baserei sul mio personale giudizio. E il mio giudizio di forte lettrice mi dice che quando sono in libreria non ho voglia di scervellarmi per stabilire se una determinata autrice è, a parere del libraio “narrativa femminile” o, chessò, “narrativa serba”. E visto che siete a Roma, se fossi una donna romana e vedessi una stupidaggine del tipo “narrativa femminile” in una libreria che sto spulciando a caccia di acquisti, girerei i tacchi e andrei a spendere i miei soldi in una libreria organizzata in modo meno balordo.
Ma se invece che una donna fossi un librario (o una libraria), eviterei con cura di irritare la femminil clientela, indipendentemente dal fatto che si irriti a torto o a ragione: se il cliente ha sempre ragione, forse anche la clientessa lo ha.
Concordo che sia un po’ ridicolo il genere “narrativa femminile”; è anche vero che è consuetudine ci siano riviste “per donne” e “per uomini”, questa mi sembra la versione un pochino più sofisticata di quella suddivisione dell’ edicola.
Essendo attorno all’ 8 marzo mi sembrerebbe plausibile anche che il target del reparto fosse in realtà il maschio brancolante in cerca di un regalo, a cui dare una sorta di cestone dell’autogrill in cui frugare per trovare qualcosa da accompagnare alle mimose. (magari invece è un reparto sempre presente in quella libreria, non so)