Non è una novità, o forse per qualcuno lo è, e in quel caso sarà bene ribadire, in tempi in cui, fra talent televisivi, contest dal vivo o in rete, l’esordiente viene inseguito dalle case editrici. Un bene, un male? Chi son io per dirlo? Lascia però perplessi il meccanismo: perché quell’esordiente, se attivo in rete, deve avere un proprio pubblico e deve essere “popolare”.
Non solo l’esordiente, a dire il vero. Anche il giornalista, il redattore, chiunque. Sul tumblr di Morti di fama trovate lo scambio di mail tra una blogger e un sito di notizie che ci va giù duro: “Il contratto prevede un pagamento iniziale di 1 euro per tutti i post con più di 300 like nel mese di competenza e di 2 euro per i post con più di 1000 like nel mese di competenza. I post con meno di 300 like non saranno pagati.”
Leggete, e subito dopo leggete Beniamino Placido. In tempi in cui esistevano ancora le grandi domande (perché si scrive? perché si legge?), e lo spunto per parlarne era, addirittura, Margaret Atwood.
Ecco il tema – e il libro – di cui oggi dobbiamo interessarci. Ma basterà leggerne poche righe, quelle iniziali. L’ autrice è canadese. Si chiama Margaret Atwood, nota anche da noi per aver scritto L’ Assassino cieco vincitore del «Booker Prize 2000». Ed anche Occhio di gatto. E poi questo Negoziando con le ombre. La copertina, che è debitamente nera (si parla di ombre), ce lo presenta – e in parte ce lo impone – come «Un testo essenziale per chiunque nutra il benché minimo interesse per la scrittura e per la sua gemella muta, la lettura». Sicché noialtri lettori saremmo soltanto dei «gemelli» un po’ minori – e soprattutto muti – di quelli che scrivono. Beati loro. Ma avevamo promesso di leggere almeno le prime righe del capitolo introduttivo e lo facciamo: almeno quelle. Eccole. «Quando studiavo Letteratura Inglese, nei primi anni Sessanta, dovevamo tutti leggere un importante testo critico intitolato Sette tipi di ambiguità (1930). E’ stupefacente notare che questo libro coltissimo fu scritto da William Empson all’ età di soli ventitré anni. E’ anche stupefacente che, durante il travaglio della composizione, Empson fu espulso dall’ Università di Cambridge perché in camera sua erano stati scoperti dei preservativi». C’ è chi si sarà già infastidito (ed era tempo) di fronte a questa scrittrice, che invece di soffermarsi adeguatamente su quel libro straordinario che è Sette tipi di ambiguità, dove si dimostra come il linguaggio poetico sia sempre intrinsecamente ambiguo, sempre oscillante tra due o più tipi di significato e come debba a questa ambiguità la sua forza, si intrattiene invece su un particolare minore e tutt’ affatto «materiale» come i preservativi di William Empson. Infastiditi (un po’ ) ci siamo anche noi ma abbiamo continuato a leggere e nel periodo immediatamente successivo di questa stessa paginetta introduttiva abbiamo trovato qualcosa che redime l’ apparente superficialità-banalità della Atwood e ridà tutto il valore che merita al suo saggio. Ma ne riparleremo solo alla fine di questa ammirata recensione (il saggio della Atwood è ammirevole) che intanto continua. Con due domande; la prima è: perché si scrive? Perché vuoi scrivere? Chi credi di essere per voler abbandonare il prosaico lavoro che fai e metterti a fare lo scrittore? Quindi ecco la Atwood pronta ad annoverare le possibili, ricorrenti risposte. Sempre però scherzando, saltando di palo in frasca, citando scrittori di tutti i tempi, di tutti i Paesi, e qualche film italo-francese tra cui Il Postino di Troisi. E infine elencando. Un elenco delle risposte ricorrenti a quella ricorrente domanda è il seguente: perché dunque scrivi? Ma «per dissotterrare il passato mio e della mia famiglia. Per fare marameo alla morte. Per soddisfare il mio desiderio di vendetta. Per fare soldi. Per farglielo vedere a quelli chi sono io». In altri termini, e come al solito, si scrive per affermarsi ed ottenere il rispetto magari rancoroso, dei vicini di casa, dei compagni d’ ufficio, dei colleghi dell’ università. Niente di male, naturalmente. Conta il risultato (della scrittura). Specie se genera, se provoca una qualche lettura. E qui siamo alla seconda domanda della Atwood: perché leggiamo? Alla quale risponderemo come già sappiamo, e da tempo. Leggiamo per vivere di più, per provare più sensazioni, per consumare più esperienze, considerando che tutti i personaggi che incontriamo in Amleto o in Don Chisciotte sono incomparabilmente più veri delle persone reali a loro pressappoco corrispondenti e che ci può capitare di incontrare per strada. Da questo momento in poi la Atwood colloca fermamente al centro del suo discorso non più lo scrittore e i suoi personaggi (se ne ha inventati) ma il lettore. Che cambia nel tempo, e cambiando è capace di attribuire significati sempre nuovi alle opere letterarie: «Così il testo è come una partitura musicale, che non è in sé musica, ma diventa musica quando è suonato o interpretato, come diciamo, da un musicista». Adesso sì che possiamo andare a rileggere quella benedetta introduzione dove la Atwood aveva scritto che il suo benamato William Empson era stato espulso dall’ Università di Cambridge perché in camera sua erano stati trovati dei preservativi. Ma come cambiano i tempi e gli uomini. Come cambiano i testi «immortali» che leggiamo. Scrive ancora la Atwood: «Oggi di sicuro sarebbe espulso se venisse trovato senza preservativi in camera sua».
Trent’anni fa scrissi su “Epoca” contro i bracconieri calabresi, che aspettano l’arrivo dall’Africa del falco pecchiaiolo (l’adorno) stremato dal viaggio, gli sparano e lo fanno impagliare per venderlo a degli abbrutiti come loro, o per tenerselo come “amuleto contro le corna”. Nonostante gli sforzi della Forestale e degli ambientalisti calabresi contro quella pratica vigliacca e illegale non è cambiato niente (vedi il triste documentario di Luca Verducci su
Repubblica TV).
Dunque queste mezze cartucce sono i figli e i nipoti di quelli di allora: generazioni di maschi rudimentali, superstiziosi e violenti, che paiono sortiti pari pari dalla disperata satira di Cetto Laqualunque.
Se mi avessero detto – trent’anni fa – che i figli sarebbero stati uguali ai padri, non ci avrei creduto. Ero sicuro, da giovane, che la storia camminasse spedita, che la società era destinata a cambiare e a migliorare quasi per inerzia, per naturale evoluzione. Pareva inevitabile – non solo a me – che l’arretratezza italiana, figlia della povertà, della sottomissione, dell’ignoranza, si sarebbe stemperata con il benessere, con la scolarizzazione di massa, con il buon esempio. Non è andata così. Qualcosa si è inceppato. Non i fucili dei bracconieri. Non la superstizione. Non il machismo troglodita.
Michele Serra – l’amaca
Da La Repubblica del 08/10/2013.
Caro diamonds, è che per tanti anni abbiamo vissuto nel mito culturale dell’ineluttabile miglioramento. Grazie a questo mito ci siamo ubriacati di razionalismo incuranti di una pancia che continuava a emettere i suoi frutti in modo sempre più forte. Finché qualcuno si è messo ad ascoltarla e poi a darle ragione perché più facile da assecondare. Così siamo passati dall’ineluttabile miglioramento all’ineluttabile irrazionalità. E tra un (falso) progresso e una (reale) paura dell’inconscio siamo giunti all’ineluttabile paralisi del presente.
Per tornare ad avere un sogno da inseguire (e quindi una prospettiva diacronica futura) saremo costretti a riguardare e a ripercorrere più consapevolmente ciò che abbiamo dietro le spalle? Magari (anche) da lettori?
un giorno riporterò un brano relativo a come i conservatori-reazionari si muovono secondo il paradosso di Zenone e vincono in una mossa
http://www.youtube.com/watch?v=5_j4f0HiEh0