SE NON SEI SINCERA TI MINACCIO DI MORTE: A PARTIRE DA JEANINE CUMMINS, E SULLA LETTERATURA IPERREALISTA

C’è una vicenda di cui, infine, non si parla moltissimo, e che a mio parere pone una questione centrale nella discussione sulla letteratura. E’ quella di Jeanine Cummins, scrittrice portoricana di cui Feltrinelli ha appena pubblicato Il sale della terra (in originale American Dirt). Romanzo con molti blurb, con una buona trama (libraia di Acapulco, sopravvissuta all’assassinio della sua famiglia con il figlio bambino, in fuga dai narcos sulla Bestia, il treno merci dei migranti) e, da quanto sto leggendo, una buona scrittura. Romanzo che ha suscitato una marea di polemiche perché scritto da una non messicana, e per di più animata, dicono, dallo spirito della privilegiata che parla di una realtà da cui non proviene.
Come ha raccontato Guia Soncini in un ottimo articolo su Linkiesta, nonostante le premesse della stessa autrice sui dubbi sul poter narrare una storia di questo tipo, le cose sono andate male: presentazioni annullate “a causa delle concrete minacce di violenza nei confronti dell’autrice e dei librai”. Commento di Soncini, sacrosanto:
“ma ve lo ricordate quel tempo non così remoto in cui noi, occidente presunto e sedicente avanzato, le minacce di morte ai romanzieri che s’impicciavano di personaggi non di loro competenza le lasciavamo agli ayatollah?”
Ora, la questione Cummins tocca un punto cardine: stiamo identificando letteratura, e dunque un atto di finzione per eccellenza, con verità. Ci stiamo, ormai da una quindicina d’anni, abbarbicando attorno al concetto di autenticità: secondo il quale un romanzo è degno solo se riporta l’esperienza diretta, o presumibilmente diretta, di chi lo scrive. Un mio saggio amico individua anche i due romanzi da cui, in Italia, tutto è partito: Gomorra di Roberto Saviano e La solitudine dei numeri primi di Paolo Giordano. Narrative nonfiction realista e in prima persona, nel caso di Gomorra, fiction che si può almeno anagraficamente definire espressione diretta dell’autore nel secondo. Da quel momento, ai testi si chiede sempre più spesso che l’io scrivente si riveli come garante dell’autobiografia, che sussurri al lettore che quello che narra è vero, ed è capitato a lui o a lei. Più si schiaccia il pedale della confessione, più il testo viene ritenuto onesto.
Non sto sostenendo che non ci siano libri importanti, qualitativamente degnissimi, libri che ho amato e amo, in questa che non è neanche più una tendenza, è lo spirito letterario del tempo. Dico però che forse dovremmo pensarci su: solo i migranti possono parlare di migranti? Solo gli omosessuali di omosessualità? Solo le donne di personaggi femminili? E tutto ciò che abbiamo alle spalle, che fine fa? E, ancora, tutto quello che possiamo e dobbiamo immaginare, che fine fa?
Avviene, peraltro, anche in ambito fantastico: laddove, se gettate un occhio a testi e serie televisive, è in atto un addomesticamento dell’immaginario. Il diavolo va dalla psicanalista in Lucifer, dunque è uno di noi, l’aldilà di The good place somiglia al nostro condominio.
E’ uno specchio dove il nostro riflesso è sempre più dettagliato, basta allungare la mano e sembriamo davvero noi, quelli raccontati. Ma siamo sicurissimi che la letteratura debba rappresentare il reale, e non scavalcarlo, non scardinarlo? Siamo sicurissimi che non stia sostituendo la cronaca, che non si sovrapponga ai nostri status su Facebook? Io no, neanche un po’.

Un pensiero su “SE NON SEI SINCERA TI MINACCIO DI MORTE: A PARTIRE DA JEANINE CUMMINS, E SULLA LETTERATURA IPERREALISTA

  1. Ciao Loredana, eccomi qui a scrivere di nuovo su Lipperatura dopo tanto tempo. Torno sul tuo blog dopo il nostro breve scambio su twitter, anche per fare mio l’invito dei Wu Ming a tornare nella blogosfera e lasciare perdere i social. Torno con un commento fiume, spero mi perdonerai.
    Questo tema, come avrai capito, mi tocca molto. Il dibattito che è scaturito dal libro di Cummins negli USA è molto importante e sarebbe altrettanto importante che risuonasse anche da noi, nella vecchia Europa che su questioni come “own voices” e razzismo è messa forse peggio che il paese di Trump. Lo dico a ragion veduta.
    Prima però qualche precisazione: l’articolo di Guia Soncini contiene molte inesattezze. Cummins non è portoricana, ma bianca (come lei stessa si è definita) e di background soprattutto irlandese. Pare abbia una nonna portoricana. E comunque anche se fosse portoricana non sarebbe migrante, dato che Puerto Rico è territorio USA. Inoltre il marito sans papier è irlandese, che, fidati, è MOLTO diverso che essere di un’altra parte del mondo dove la gente non è bianca. Un irlandese non finirà mai in un centro di detenzione ICE o in un CIE, senza diritti e senza cure. Ho conosciuto persone uscite dai CIE traumatizzate e gravemente malate. Di recente un uomo è morto in un CIE. Questo non potrà mai accadere a un migrante irregolare di un paese occidentale, mentre è una paura tangibile e talvolta una realtà anche fatale per chi occidentale non lo è.
    Non dico tutto questo per fare le pulci al suo albero genealogico, di cui non mi frega assolutamente nulla, ma perché ne parlano Soncini e Cummins stessa, assumendo quindi quello stesso dato identitario contro cui si scagliano, e senza neanche averne titolo.
    Ma qui gli errori non sono ancora finiti: infatti i tanti scrittori di origine latina che hanno criticato American Dirt non l’hanno fatto perché l’autrice non è messicana, ma perché il libro è pieno di stereotipi, errori e veri e propri plagi. Ti consiglio, se non l’hai ancora fatto, di leggere la recensione che ne ha fatto Myriam Gurba qui https://t.co/g6MhpHHpBf?amp=1 . Il punto identitario, “razziale” non l’hanno posto loro, ma l’industria editoriale, che ha deciso di spingere questo libro al successo ad ogni costo (persino pagando Gurba perché non pubblicasse la sua stroncatura) perché è un libro scritto da un’autrice bianca per bianchi. Nonostante lei non conoscesse a fondo il tema e a spese di altri scrittori non bianchi. È brutto dirlo, ma è così. L’industria editoriale è razzista, come lo è chiunque rientri nella categoria di “bianco”. Come lo siamo tu, io, Cummins, e chiunque altro. Nasciamo nel razzismo, è il nostro secondo liquido amniotico, quello in cui ci tuffiamo quando nasciamo (allo stesso modo del sessismo, tra l’altro). Il punto è riconoscerlo e liberarsene. Tanti narratori l’hanno fatto. Mi vengono in mente le serie tv Orange is the new black, che parte dal libro autobiografico di una donna bianca e poi aggiunge un ventaglio di personaggi di ogni sfumatura, o tutte le meravigliose serie di David Simon, o ancora la saga The hunger games. Però vedi, Katniss Everdeen è stata “sbiancata” nella trasposizione cinematografica, e non è un caso. L’industria culturale non è neutra, ed è per questo che ha scelto Cummins e ha puntato così tanto su di lei, a spese di altri scrittori che Cummins ha usato o che non hanno ricevuto altrettante attenzioni perché l’investimento è stato fatto su di lei. E Cummins non ha fatto la fatica di liberarsi dal suo razzismo, altrimenti non avrebbe scritto un libro pieno di stereotipi e sciocchezze. Ne avrebbe scritto uno che rende giustizia alla storia – che è storia dolorosa, sanguinante di oggi – che vuole narrare. E la sua casa editrice non avrebbe lanciato il libro con un centrotavola a forma di filo spinato. Ma ti immagini un libro sull’Olocausto con un centrotavola a forma di camera a gas?
    Tu dici che il punto è la moda del libro confessione, della verità (o presunta tale) che ha più valore dell’immaginazione. Io voglio ribaltare la questione: fino ad ora i narratori occidentali hanno immaginato l’altro e hanno dato alla loro immaginazione il valore di verità. Per secoli la voce dell’Occidente è stata la verità tout court, la realtà, il neutro, la rappresentazione del mondo. La vicenda di American Dirt ha mostrato che è ancora così, ma è sempre meno accettabile. Ha puntato il dito contro chi si sente in diritto di detenere la verità assoluta. E la triste realtà è che senza questo diritto tanti e tante di noi si sentono spossessati, spaventati, sperduti. Perché siamo profondamente ignoranti, arroganti e pigri.
    Ti faccio un esempio che ho vissuto in prima persona. Ero appena tornata da un viaggio in un paese africano di cui nessuno in Italia sa nulla, e ne stavo parlando a tavola con altre persone. Dopo poche parole sono stata interrotta da un uomo – di grande cultura – che pur non sapendo assolutamente nulla di quel paese, di chi lo abita, della sua storia ha iniziato a pontificare sulle sue presunte tradizioni. Ho provato in ogni modo a riprendere la parola, a spiegargli dove stava sbagliando, ma senza nessun risultato. Quello che lui stava dicendo era vero, ed era vero perché lo stava dicendo lui – europeo bianco – e per nessun altro motivo. Nessuna persona di diverso background ha un atteggiamento simile (e non si tratta di minoranze, la minoranza siamo noi). Questa arroganza, ho compreso dopo questa esperienza e mille altre totalmente analoghe, è il vero nocciolo del nostro essere occidentali. È ciò che ci distingue dagli altri. Ed è ora di liberarcene. Ma questa liberazione per tantissimi è semplicemente, appunto, inimmaginabile.
    Non è che dietro la moda della “storia vera” c’è anche una sana ricerca di una narrazioni oneste, finalmente empatiche e non pervertite da una visione parziale che si crede assoluta? La letteratura deve scardinare il reale, ma per far sì che i nostri orizzonti siano più vasti, per aiutarci a superare noi stessi e le nostre esperienze, non per ricondurci al vecchio campionario di stereotipi. Immaginare non vuol dire non fare lo sforzo di conoscere e capire, soprattutto quando il tema è gente che soffre in questo preciso istante. So che lo sai, ma dubito che per tanti difensori della creazione letteraria e detentori del diritto assoluto di narrare il mondo intero questo punto sia chiaro.

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