SOLI NELLA PLACIDA LUCE DEL GIORNO, OVVERO COME SIAMO ARRIVATI FIN QUI

Le cose, le cose, le cose. Il timore di perdere le nostre cose. La paura per le nostre cose. Nel 1994, davvero una vita fa, scrivevo questo articolo per Repubblica. Ed eravamo ancora agli inizi.
Gli eroi di Henry James avevano la vita facile: almeno per quanto riguarda il rapporto con gli oggetti. Un personaggio di The Bostonians indovina il carattere e i gusti della cugina osservando attentamente i suoi divani, gli acquerelli, i libri ordinati in scaffaletti simili a mensole, “come se un libro fosse una statuina”. Il protagonista di The Ambassadors che accede alla dimora parigina di Madame de Vionnet, ne intuisce l’ orgoglio di casta dall’accurata esposizione di miniature e medaglioni, “non volgarmente numerosi, ma ereditari, prediletti, squisiti”. Ad Henry James si sono rivolti un’ antropologa e un economista, Mary Douglas e Baron Isherwood, autori de Il mondo delle cose (pubblicato tempo fa da Il Mulino), per spiegare che gli oggetti sono i cardini di un sistema di informazione e non il frutto di una stolta e deprecabile vocazione spendacciona. “Buoni da pensare”, direbbe Lévi-Strauss: e non “da consumare”.
Ad Henry James si può tornare a rivolgersi oggi, per constatare quanto la decifrazione del codice degli oggetti si sia fatta complessa come la società a cui appartengono. E che il signor Strether di The Ambassadors dovrebbe fare i conti non più con medaglioni e miniature: ma con essiccatori per funghi e asciugascarpe, scacciatopi a ultrasuoni, aspiratori d’ aria per buste da frigo e rivelatori d’ acqua contro lavatrici debordanti (esistono davvero: come da catalogo D-Mail). Oppure potrebbe imbattersi in prodotti apparentemente destinati ai bambini come quelli firmati da Alessi, già reinventore del design domestico col famoso bollitore canterino di dieci anni fa, ed ora padre di Stappo, apribottiglia in sembianza di massaggiagengive per lattanti e di Gino Zucchino, che sembra un pupazzetto 0-36 mesi, ma è una zuccheriera.
E’ stato calcolato che agli inizi del secolo una famiglia di quattro persone manipolava duecento oggetti contro i tremila nostri contemporanei: tremila “cose” di cui non sempre sono chiare l’ utilità, l’ appartenenza o meno alla categoria del superfluo, la modalità d’ impiego. Per non parlare del valore: in spregio all’ equazione serialità=morte della sacralità, sono stati penne biro e pannolini usa-e-getta gli oggetti di culto del “presentariato” e delle mostre e dei saggi ad esso dedicati. Eppure l’ esaltazione sembra scemare: e dopo averli deificati negli anni Ottanta, la società, complice la crisi economica, sembra cominciare a diffidare degli oggetti. “Il fatto è”, spiega Ezio Manzini, docente al Politecnico di Milano e vicepresidente della Domus Academy, “che siamo nel consumismo da pochi decenni. L’ uomo della foresta amazzonica conosce bene l’ infinita varietà di piante che lo circonda, ma per imparare gli ci sono voluti secoli. Noi ci muoviamo in una foresta di prodotti senza avere mai il tempo di conoscerli, perché cambiano continuamente”.
Il risultato è che il rapporto con le cose si è aggrovigliato fino ad arrivare al suo momento critico. “Per esempio”, prosegue Manzini, “sono state saturate le funzioni primarie. Se, infatti, era lampante il salto tra il lavare a mano, il lavare a macchina e il lavare con una macchina automatica, diventa più difficile stabilire se una lavatrice a cinque programmi sia più utile di una che ne vanta soltanto due. Difficilissimo se si aggiungono gli optional: che poi, nella maggior parte dei casi, non vengono utilizzati o perché non servono effettivamente a molto o perché vengono proposti in modo difficile. La conseguenza è che si sta ripetendo quello che è già avvenuto nel settore degli orologi, quando il successo dei modelli giapponesi dalle cinquecento funzioni è impallidito davanti agli Swatch, che certamente non fanno a meno della tecnologia, ma non la esibiscono”. Dunque la tecnologia non è più un “must”: si relega al livello meno nobile delle vendite per corrispondenza, e ai piani alti si nasconde sotto sembianze amichevoli.
Si chiama “giocattolizzazione” il fenomeno che investe macchine fotografiche, elettronica di consumo, automobili. “Qui”, dice Manzini, “il cambiamento è visibilissimo: in luogo delle vetture-macho di qualche anno fa ci circondano automobiline tonde e rassicuranti che sembrano uscite da una pagina di Topolino. Probabilmente l’ industria ha capito che non è più con l’ esibizione di muscoli tecnologici che si può affascinare il pubblico”. La maschera del giocattolo, comunque, sembra essere più che altro un esorcismo, una smitizzazione: la vera rivoluzione, sostengono alcuni, sarà il ritorno all’ oggetto duraturo ed essenziale, alla semplicità, al materiale nobile.  “Comunque sia”, afferma Manzini, “il cambiamento è inevitabile: il sistema che conosciamo è in un vicolo cieco. Le faccio ancora un esempio. Se esamina pezzo per pezzo la produzione dell’ elettronica, si accorge che dietro ogni prodotto ci sono investimenti straordinari: un CD interattivo rappresenta il meglio di ciò che l’ uomo ha fatto. Ma tutta questa intelligenza è rivolta nel campo dell’ intrattenimento: esistono, cioè, decine e decine di prodotti diversi che tutti vorrebbero destinati a divertire una persona ricca, disponibile, con molto tempo libero. Non è possibile. La popolazione che rispecchia questo tipo di profilo è pochissima nel pianeta. E’ evidente che, a questo punto, è lo stile di vita che deve modificarsi radicalmente”. Qualcuno ci ha già pensato, proponendo l’ alternativa neopauperista agli affezionati del futile. Su un altro catalogo natalizio, quello de Il giornale della natura, venivano consigliati i fiori di legno che sostituiscono quelli veri: 2900 lire i boccioli di tulipano, 1200 la foglia verde. –

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