La prendo da lontano. Nel 2017 arriva in Italia un film, Arrival, e insieme arrivano i romanzi brevi di uno scrittore americano che si chiama Ted Chiang, con il titolo di Storie della tua vita. In quello che dà (quasi) il titolo alla raccolta e da cui è tratto il film, il meccanismo è quello noto al mito: un dio che viene da fuori e porta il caos. Gli dei in effetti sono due. Sono ombre di calamari, o per meglio dire eptapodi, o per dirla con Chiang ciascuno di loro “somigliava a una botte, sospesa nel punto in cui i suoi sette arti s’incontravano. Aveva una simmetria radiale, e ognuno degli arti poteva fare sia da braccio sia da gamba”. Non sappiamo da dove vengono, sappiamo che hanno bellissime astronavi e che sono arrivati sulla terra. Per capire e forse per donare. Non sono nemici, non sono neanche esseri da studiare. Vengono da lontano e getteranno nel caos almeno una vita, ammesso che si possa parlare di caos.
La vita è quella di Louise Banks, la linguista incaricata dai vertici militari di decifrare e imparare l’idioma alieno. Con lei, a comporre una delle numerose squadre che tentano in tutti i modi di instaurare relazioni con i visitatori, c’è Gary, fisico, che è anche il padre della figlia che avrà e che perderà quando la ragazza compirà 25 anni, perché questo è il dono del dio, essere immersi nel fluire del tempo e conoscerlo tutto.
La narrativa fantastica di Chiang è quasi per intero basata sul tempo e affonda sempre le radici nella scienza. In particolare, qui, nell’ipotesi di Sapir-Whorf, dal nome dei due antropologi americani convinti che esista una relazione strettissima tra visione del mondo ed espressione linguistica. A un certo modo di esprimersi, ovvero, si lega un’organizzazione del pensiero, e ogni linguaggio, se assimilato, porta al ricevente anche la filosofia di vita dei parlanti originari. Nel caso, quella dei due eptapodi, Flapper e Raspberry, che usano una scrittura semasiografica, che si sviluppa come una ragnatela, non ha verso e direzione, non ha punteggiatura, dunque non ha inizio e non ha fine, e dunque ancora: “già prima di tracciarlo, l’eptapode sapeva come si sarebbe sviluppato il resto della frase”.
«Gli uomini avevano sviluppato una coscienza di tipo sequenziale, e gli eptapodi ne avevano sviluppata una di tipo simultaneo. Noi percepiamo gli eventi secondo un ordine […] loro percepiscono tutti gli eventi in una volta sola, a partire da un obiettivo che li collega tutti quanti. Un obiettivo di massimo o di minimo»
Accade anche a Louise, che più apprende la lingua degli eptapodi più sperimenta una percezione simultanea della sua vita: vede il suo amore, il suo divorzio, la nascita e la morte della figlia come futuri e passati, contemporaneamente. E non può che accettarlo. La questione della libertà nemmeno si pone, ci si attiene al copione. Sembra una limitazione intollerabile, ma alla protagonista non sfugge che anche noi umani proviamo piacere quando si compie ciò che è stabilito. Dunque, è caos, e insieme è, perversamente, ordine. Ed è sul tempo, sulla buca del coniglio, che si gioca molto del fantastico contemporaneo: su quale stringa camminiamo? Cosa ci fa paura, il tempo che scorre, e avvicina la nostra mortalità, o il tempo immobile? Cosa vogliamo sapere di più? Vita, come al solito. E patti col diavolo, come un tempo raccontò King ne La giusta estensione: quel po’ di vita in più che ci permette di fare l’amore, mangiare, tuffarci in acqua quando è caldo, allungarci sotto le coperte se fuori la neve copre i giardini.
In questi giorni, in queste ore, mi chiedo cosa avrei fatto se avessi potuto vedere, intorno ai trent’anni come Louise, il corso della mia vita tutto in una volta. E’ buffo scriverlo, o banale, ma rimarco giorno dopo giorno quanto grande sia la differenza fra chi ha trent’anni oggi, e generalizzando (e dunque sbagliando) ha ambizioni lucidissime, geometriche, è in grado di immaginare mosse per la propria carriera come a Risiko e concepisce la vita senza disgiungerla dall’idea di successo.
Non succede sempre, non succede a tutti (succede a chi ha un pur minimo privilegio, familiare e culturale, evidentemente): ma è come se l’onda lunga del berlusconismo avesse modellato implacabilmente il modo di sentire di giovani donne e giovani uomini che introiettano naturalmente il modo di rapportarsi, la ricerca dei contatti giusti da accattivarsi con grazia, la strategia attorno a cui coinvolgere la rete di amicizie e frequentazioni.
Non sto dicendo che non avvenisse anche prima, intendiamoci. Sto dicendo che oggi è raro che non avvenga. E’ come se alla maggior precarietà lavorativa (che era molto, molto, molto presente anche prima: della mia generazione, chi ha raggiunto i cosiddetti posti apicali si conta sulle dita di un paio di mani) si sovrapponesse, per compensazione, una certa spietatezza. Un ognuno per sé, anche quando si prende parola a nome di molti.
Cosa voglio dire? Che se allora avessi visto la storia della mia vita fino a questo momento, con la fatica (enorme) e i dolori (e anche le piccole e grandi felicità) avrei fatto la stessa cosa. Perché non si cambia fino a questo punto, anche se ci sono momenti, come questi, in cui ci sente così feriti da sentirsi anche sbagliati. Ma passa, come tutto nella vita.