Questa mattina, in autobus, cercavo di individuare l’immagine che provasse almeno a interpretare quello che vivo come lo stato delle cose, a oggi. Intendo per stato delle cose un insieme di situazioni, che vanno dal linciaggio di Ignazio Marino al risentimento immobile verso il potere (qualunque forma di potere: politico, editoriale, mediatico, persino privato) e all’inconsapevolezza montante di come la nostra presa di posizione verso quel potere venga sollecitata a fini pubblicitari. Più rabbia, più click. Una storia che dovrebbe essere vecchia, ormai, e che eppure tocca corde così profonde da non farci reagire.
Mentre scendevo dall’autobus (toh, questa mattina era puntuale: sicuramente un effetto delle dimissioni del sindaco, giusto?), mi sono ricordata di Sigtuna. E’ la città più antica della Svezia: a pochi chilometri da Stoccolma, puoi entrare in piccole costruzioni di legno a bere cioccolata calda, sfiorare iscrizioni runiche. E, soprattutto, nella stagione giusta, passeggiare sulle acque ghiaccciate del lago Mälaren. L’ho fatto, non molti anni fa. Era marzo, la giornata era calda, e sul ghiaccio si erano formate già diverse incrinature. In certi punti, anzi, scricchiolava sotto i tuoi passi.
Non c’era pericolo, sembravano dire le famigliole che pattinavano allegre a pochi metri di distanza. Eppure lo scricchiolio c’era, e annunciava comunque un disgelo non così lontano.
Per quanto ovvio sia l’accostamento, la sensazione che provo in questi giorni (e mesi, forse) è identica. Vale per tanti nodi tuttora irrisolti: i femminismi (c’è, a proposito, una lunga inchiesta di Sabina Minardi su L’espresso di questa settimana che ragione sugli empasse e sui mancati passaggi di testimone, e ho risposto anche io, fra le altre, perché non riesco a capacitarmi della semplificazione ulteriore cui i femminismi sono stati sottoposti, non mi capacito di come si possa sminuire una questione essenziale per la vita di tutte e tutti alla battutina brillante del solito comico da bacheca social). L’editoria e la perdita di lettori, e il tentativo di arginarla unificando e accorpando (la distribuzione prima ancora dei gruppi editoriali) e cercando di inseguire il lettore che ha acquistato e gradito quel determinato libro riproponendogliene di simili finché non ne potrà più.
La politica, ma certo. Quello che più colpisce della vicenda che ha portato alla pubblica lapidazione di Ignazio Marino è come sia stata usata una macchina narrativa, quella dell’indignazione verso il colpevole, che dai tempi delle famigerate monetine del Raphael si è allargata a macchia d’olio senza che l’altrettanto famigerato sistema ne sia stato intaccato. Noi lo sappiamo, almeno in parte, eppure continuiamo a lanciare la nostra virtuale monetina mentre i nostri tweet, i nostri status, persino la nostra presenza fisica in una eventuale piazza diventano il punto d’accesso per aumentare le visite di un sito. E non muovono nulla.
Il nostro problema è uno: l’informazione. E, no, non sto affatto partecipando al coretto “giornalisti corrotti-incapaci-Kasta”, perché di giornalisti competenti, seri, coraggiosi e nient’affatto collusi è pieno il paese, care e cari. Sto parlando di un sistema che può essere scardinato solo con l’approfondimento e la consapevolezza, in primis dei lettori-attori di questo sistema. Sto parlando di noi, che camminiamo sul lago ghiacciato, e finiamo per trovare divertenti gli scricchiolii.
A esemplificazione, posto qui sotto un intervento di Gatto Rosso, che nella sua vita senza nickname conosce molto bene i meccanismi della pubblicità, e che mi ha scritto a proposito della vicenda raccontata lunedì su questo blog, quella di Cookie srl (a proposito, pensate che sia cambiato qualcosa? Macché, i nostri eroi continuano a fotografarsi in pizzeria e a scrivere post sempre più nefandi). Buona lettura.
L’inutilità del Male
di Gatto Rosso
Contemplando questo tipo di male vengono in mente un sacco di cose, e molte sono già state dette: nulla di nuovo, la TV lo fa da più tempo e più autorevolmente, e altro.
A me viene da pensare all’inutilità del male. I nostri giovani amici appartengono a una schiera numerosa, che infesta il web e contribuisce grandemente a renderlo la fogna che in fondo è, in nome del dio click. Ma il click non è niente, è vuoto nel vuoto. Loredana ha già chiarito, il fine è attirare con qualunque mezzo “visitatori”, cioè occhi umani che si posino sulle pagine gestite dai nostri eroi. Gli annunci a pagamento su Facebook sono un investimento che deve generare un capitale fatto di numeri; tanti visitatori unici, tante pagine viste ecc.
Questi numeri non sono il fine ultimo, ma lo strumento necessario a vendere il vero prodotto, la Pubblicità. Chi compra pubblicità cerca “contatti”.
Per farne che?
Ci sono due scuole di pensiero, riassumibili in “traffico generato” e “opportunità di essere visti”. Sempre dentro un ragionamento iper-semplificato, le due grandi categorie del pensiero pubblicitario, “sinistra” e “destra”, visioni del mondo.
Per gli adepti della seconda, la pubblicità funziona per il solo fatto di cadere sotto i sensi (una scuola con tradizioni antiche come la società di massa). Il suo vangelo è un vago “indice di pressione pubblicitaria” prodotto più o meno da x teste colpite per y volte in un periodo dato.
In quale momento è situazione si trovino le teste quando vengono colpite non conta nulla. La pubblicità funziona indipendentemente dalla nostra volontà. È il modello dello spot TV che interrompe il film (in calo da anni).
La “misura dell’efficacia” è il suo sacro graal. Ha prodotto la mitica frase “so che metà del mio budget pubblicitario è sprecata, ma non so quale”.
Dato che tutti possiamo intuire quanto sia complesso il processo che ci porta da uno stimolo al concreto acquisto di qualcosa, ciascuno valuti la probabile utilità del video di un’auto di lusso che si apre mentre cerchiamo di capire quale orrenda, morbosa verità si nasconda nella cameretta.
(Attenti: una cosa è dire che la pubblicità nel suo complesso è una potente influenzatrice della società, altra cosa è che una certa campagna abbia un effetto misurabile sulle vendite di un certo prodotto nel periodo dato).
L’altra scuola crede nella concreta misurabilità. All’inizio del web i suoi fedeli credettero di aver trovato la terra promessa: tutto è misurabile!
È il regno del dio click. Tutto si gioca nel momento in cui Utente vede il mio annuncio, ci clicca sopra (!) e viene magicamente trasportato là dove tutto si compie (nel mio sito). Ma cosa si compie? La Vendita, o qualunque sia per me il suo equivalente; dove guadagno.
Ma succede?
Secondo Google, che se ne intende, un tasso di click del 2% su un annuncio è già grasso che cola. Studi sembrano indicare che il tasso può salire in funzione della stretta attinenza dell’annuncio con gli interessi che in quel momento muovono l’utente; e siccome è chiaro in partenza che questa condizione non può essere più lontana che nei siti dei nostri amici delle camerette, mi gioco i baffi che il loro tasso (CTR) sarà qualcosa come lo zero virgola. È un dato comune, non crediate.
E poi, dopo che lo zero virgola ha cliccato, cosa dovrebbe succedere? La Conversione, cioè la trasformazione del visitatore in compratore. Da uno che guarda a uno che fa la cosa per cui il sito è costruito. Facile?
La realtà è che la Conversione è quasi inesistente. Chiunque abbia una vera esperienza di “web marketing” lo sa. La maggior parte delle visite generate in questo modo si traduce in “rimbalzi” di pochi secondi nelle statistiche; giusto il tempo di rendersi conto e via.
Quindi, da qualunque lato la si guardi, il lavoro dei nostri amici napoletani e dei tantissimi altri come loro si realizza in un nulla, non produce alcuna utilità (se non per loro, ovviamente). Chi si compra i loro “numeri” è un planner che insegue un indice senza alcun concreto rapporto con la realtà o magari un imprenditore impreparato, sedotto da un canto di sirena 2.0; ma tutto, alla fine, diventa lacrime nella pioggia.
Resta, e diventa più forte ad ogni click, il male seminato nella nostra vita social – che coincide sempre più con quella vera. I nostri amici della cameretta lavorano ogni giorno, come tanti Eichmann, all’inutilità del male.
Le pubbliche lapidazioni, comunque, mi mettono ansia e disagio.
Bell’articolo.
La macchina narrativa della lapidazione del colpevole – o meglio: dell'”infame” – mi sembra quantomai appropriata per descrivere non solo il particolare (le dimissioni di Marino), ma anche il generale (la macchina politica all’opera, alimentata da grandi quantità di passioni tristi, il rancore innanzitutto).
Ma al tempo stesso: una narrazione tossica si combatte con narrazioni altre, di segno opposto. Come quelle – con tutti i limiti che sarebbe sciocco negare – che hanno provato a mettere in atto il Teatro Valle Occupato, che provano a mettere in atto i centri sociali (ci sono, a Roma, centri sociali grandi quanto fabbriche, nei quali ci sono officine per l’autoriparazione, cucine per la mensa popolare, perché mangiare bene non è un lusso, falegnamerie, parchi, persino un lago, studentati occupati, residenze popolari). Che un sindaco presentatosi come “diverso”, “altro”, “alternativo” avrebbe potuto e dovuto valorizzare, anche per allargare l’area del consenso. E sui quali è intervenuto con una politica di sgomberi, se non ordinati cmq avallati: in attesa di Salvini e della sua ruspa reale, quella metaforica e simbolica l’ha messa in moto lui. Precludendosi il consenso di una Roma che ogni giorno si sbatte, si mobilita, cerca di pensare e agire – ripeto: con tutti i limiti che si possono trovare – contro lo scricchiolio del ghiaccio sotto le suole. E rimanendo circondato da una plebe che del permanere vuoto e inutile come un carapace sulla riva di un teatro che ha fatto la storia d’Italia – eccheccazzo, lì dentro, al Valle, per la prima volta hanno camminato i Sei personaggi in cerca d’autore – se n’è altamente sbattuta, ma del conto in trattoria no: perché per quella società incivile, le uniche narrazioni che contano, oltre alle liste di proscrizione, sono quelle del conto della trattoria e quelle del gossip (c’è andato davvero il sindaco? con chi? cos’ha preso? e il rutto, lo ha poi fatto?). La narrazione del linciaggio ha vinto, perché quelli erano i soli lettori rimasti sulla piazza, dopo che gli altri erano stati mandati a casa.
anche se tanto per cambiare sembra essere diventato lo sport nazionale tracciare giudizi tranchant su fenomeno di una complessità che solo le equazioni con svariate incognite possono simboleggiare ritengo che il giudizio di girolamo, per quanto misterioso possa apparire, sia in grado rappresentare il mio pensiero(ho pure il dubbio che il campidoglio e la poltrona da presidente della regione lazio sortisca negli occupanti lo stesso effetto che Jack Torrance subiva dall’overlook hotel)
La giornalista Alexandra Borchardt scrive sulla Süddeutsche Zeitung di ieri a proposito dell’intervento di Lance Bennett al convegno IPSA (International Political Science Association) su “Communication, Democracy and Digital Technology”: (…) Qui sta la sfida per la democrazia: c’e bisogno di un collegamento tra il nuovo modo di auto-organizzarsi e le istituzioni tradizionali. (…) L’età dell’Informazione si sta trasformando tramite le possibilità dell auto-rappresentazione in rete nell’età del Marketing. E c’è una logica dietro. Più le organizzazioni di massa perdono la loro attrattiva, più il singolo si deve sforzare per farsi notare, altrettanto se lo vuole per la sua organizzazione. Professionisti e dilettanti hanno malgrado i collegamenti in rete difficoltà ad incontrarsi. Il dialogo su Twitter, per esempio, si svolge soprattutto tra le elites, per esempio tra politici e giornalisti. Un’indagine del istituto Humboldt per Internet e Società produsse un risultato simile persino per la politica su livello comunale: politici su livello comunale quindi non apprezzano che i cittadini dei villaggi intervengano nei dibattiti sul budget con il loro know-how e i loro bisogni. I cittadini, tuttavia, smettono nel momento in cui si accorgono che il loro impegno non produce risultati. (…) Per il bene di una democrazia viva si tratta di congiungere questi due mondi paralleli. Da una parte le istituzioni devono apprezzare la forza e la ricchezza di idee dei cittadini impegnati e utilizzare le loro capacità, prendere sul serio i loro bisogni; dall’altra parte i cittadini devono imparare nuovamente ad apprezzare le istituzioni: i loro standards qualitativi, il loro know-how, il loro impegno continuo e la loro disponibilità di assumersi la responsabilità e nel caso di metterci la faccia – cose che i movimenti dei cittadini con la loro mutabilità non possono offrire. Dove istituzioni e cittadini si connettono, possono migliorare i risultati della politica e si può rinforzare la democrazia. Dove non lo fanno, si rischia di creare un vuoto di potere – e questo è pericoloso. La Primavera Araba fallita è un esempio per ciò che può succedere quando movimenti forti s’imbattono in istituzioni deboli o inesistenti. “Se non risolviamo il problema della Democrazia, non potremo risolvere neanche tutti gli altri problemi” dice Bennett. L’articolo è molto più lungo. Ho scelto arbitrariamente dei brani. Spero che la traduzione risulti comprensibile.