Immagino che chi legge abbia seguito, nelle ultime settimane, le vicende che riguardano il Salone del Libro di Torino. Le ho seguite anche io, molto da vicino, dal momento che sono coinvolta in due modi. Come consulente editoriale del Salone stesso dal 2017, e dunque impegnata a maggio nell’ultima edizione che sarà diretta da Nicola Lagioia. E come candidata alla direzione successiva, già proposta nel novembre 2021 dal gruppo dei consulenti editoriali: dunque, sì, a tempo debito, ho inviato anche io candidatura e curriculum.
La ricostruzione qui sopra si deve alla chiarezza e alla trasparenza del mio rapporto con chi mi legge qui e altrove e che della vicenda Salone ha seguito solo l’aspetto più clamoroso.
Dunque, le cose più importanti sono, per me, due: la prima è lavorare, insieme al gruppo editoriale, alla miglior riuscita possibile dell’edizione 2023. La seconda, parlare dell’elefante nella stanza, fin qui fuori dalla discussione, mentre dovrebbe esserne il punto centrale.
Sto parlando del lavoro culturale. Uso non a caso l’espressione di Luciano Bianciardi, che con quel romanzo esordì nel 1957 fornendo uno straordinario ritratto di quel che significa lavorare o voler lavorare nella cultura: al tempo, con i cineclub, con le biblioteche, con i gruppi di lettura. Bene, credo che dalla discussione dei mesi passati sia stato e sia assente questo punto: cosa significa, oggi, lavoro culturale?
Interrogarsi su questo significa chiedersi quale sia il rapporto di chi fa questo lavoro non solo con i mezzi di cui dispone al momento. Ovvero, non solo i giornali cartacei, non solo le riviste, qualunque sia la forma che assumono, non solo la radio e la televisione e il cinema, non solo Internet, qualunque sia il modo in cui ci si relaziona con i blog, i social, i podcast. Non solo, ancora, i saggi e i romanzi e i racconti, ma i manga, i fumetti, i videogames, i luoghi dove si parla di videogames e fumetti come Twitch. Le serie televisive. Wattpad.
Questi sono i particolari: ma in generale ciò con cui bisogna confrontarsi è l’enorme cambiamento che stiamo vivendo e che ci trascina dalla guerra alla pandemia all’Intelligenza Artificiale all’emergenza climatica e su cui non ci si riesce a soffermare. Non solo: invece di cambiare a nostra volta si privilegia, molto spesso, una visione personalistica (che tanto danno ha fatto e fa) rispetto all’intelligenza dei gruppi (che permettono di capire meglio quel che ci accade) e allo spirito di servizio.
Il lavoro culturale è anche, evidentemente, mettere insieme tutto questo, trovare le connessioni, scorgere i legami non visibili nell’immediato.
Si tratta, inoltre e soprattutto, di chiedersi quanto sia stato esaminato in generale e in particolare il rapporto con il cambiamento dell’immaginario (in ogni campo, dalla scienza all’economia). Quanto ci si rapporti e come con le mutazioni e le esigenze sociali. Significa, infine, chiedersi quanto sono cambiati i lettori e le lettrici, e capire fino a che punto reiterare quel che già sappiamo, e che funziona, abbia ancora senso e in quanta parte e fino a quando.
Non si tratta, insomma, di ragionare su un unico evento, ma sul ruolo di chiunque pratichi e abbia a cuore il lavoro culturale stesso. Sul ruolo degli intellettuali, diciamolo pure.
Nel 1963 Tullio De Mauro pubblica Storia linguistica dell’Italia unita. In quel libro, disse, «spiegavo la saldatura, che regnava in Italia, tra redditi, scolarità, capacità di usare la lingua italiana. Il libro, se posizioni ideologiche supponeva, supponeva quelle di ‘Nord e Sud’, del ‘Mondo’, dei liberali di sinistra. Ma qualcuno che lo lesse come giudice di un concorso disse: ‘Opera più che di studioso di agitatore comunista’. Comunista io? Mai sia! Ma già Leonardo Sciascia aveva scritto nelle Parrocchie di Regalpetra su quanto poco bastava – bastava? – in Italia per essere ritenuto un pericoloso sovversivo».
Ho la sensazione che siamo sempre a questo punto (del resto, persino il torinese De Amicis veniva considerato estremista, per non parlare di Don Milani). Ma, a differenza di allora, se ne parla molto meno. Parliamone, allora. Una volta a settimana.
Riflessione molto interessante, indubbiamente non fa comodo parlare di lavoro culturale e intellettuali, é più facile giudicare eventuali posizioni politiche
Perchè non è mai stata detta una parola sulla sua candidatura alla direzione del libro? a mia memoria il salone non ha mai avuto una direttrice o sbaglio? se non lei, chi? e se non ora, quando si potrà avere una donna alla direzione?
Come ho già avuto occasione di dirti, mi aspettavo una direttrice, dopo Nicola Lagioia, ed ero onestamente convinta che saresti stata tu a succedergli. Lo dicevo durante la scorsa edizione del Salone, mentre era ancora in corso, quando si era parlato del possibile cambio di conduzione.
Sono profondamente amareggiata da quanto sta succedendo, e spero che a giugno le cose prendano una piega ben diversa.