Quel che segue non vi piacerà, credo. Ma credo che vada scritto.
Riassunto della puntata precedente: dopo il post di ieri sulla Spigolatrice, le reazioni sono state molte. E alcune mi fanno riflettere parecchio. Mi fanno riflettere sia quelle che si scagliano contro il nudo della statua (ci sono state) sia, ancor di più, quelle che a priori, e molto spesso senza aver affatto letto il post, chiamano in causa tutta la storia dell’arte per dimostrare che nudo è bello (ma va?) e accusando chi scrive (che ha scritto altro) di voler “censurare”, usando per di più la vieta, noiosissima immagine delle mutande infilate alle statue (e mi piacerebbe tanto sapere chi ha usato per primo questa locuzione per dirgliene quattro, ma pazienza, si perde nella notte dei tempi).
Allora, che si fa, eh?
Non voglio ribadire che nessuno, o quanto meno non io, intende rivestire alcun manufatto, brutto o bello, di ieri o di oggi. Sulla Spigolatrice, così come su Violata, c’è semplicemente da interrogarsi sul contesto: su cosa si intende rappresentare in un prodotto di commissione istituzionale e come. Guardate che vale lo stesso discorso sulle statue di Padre Pio poste negli angoli strategici del Gargano: cosa voglio rappresentare e perché e come. E, anche, chi valuta cosa. E chi finanzia cosa e chi. E cosa significa il simbolico. Ieri girava su Facebook una deliziosa vignetta sul sexy-Risorgimento, che chiamava in causa tutti i protagonisti, uomini e donne, e spiegava benissimo il senso della discussione. Se intendo celebrare un personaggio, sia pur di finzione, ma riferito a un episodio storico, come lo rappresento? E’ la sua sessualizzazione il tratto principale o è il frutto della deformazione dello sguardo contemporaneo, che ipersessualizza femmine e maschi (salvo poi, come diceva Luigi Zoja giorni fa, far registrare un impressionante calo del desiderio nella vita reale: ma questa è altra storia)?
Torniamo, però, alle reazioni. Che mi preoccupano. Perché se donne giovani e dotate di cultura, donne che svolgono una professione importante o che sono impegnate socialmente in battaglie civili, se queste donne scattano preventivamente, e addirittura senza aver letto fino in fondo, contro l’idea che si voglia censurare la storia dell’arte, abbiamo un grosso problema. Anzi, ne abbiamo due.
Ho scritto in precedenza che la discussione italiana sulla cancel culture è due volte falsata: primo, perché molte notizie che abbiamo preso per vere sono balle. Leggete Valigia blu, intanto, dove si elencano le balle più evidenti. Nessuno vuole cancellare l’Odissea, e neanche Via col Vento, e neanche il bacio del principe a Biancaneve, tranquilli.
Secondo: sulla cosiddetta cancel culture, o sul fraintendimento dell’inclusione (che è necessaria e indispensabile, sottolineamolo), si fonda un’economia. Economia letteraria inclusa. La primavera scorsa Martina Testa ha scritto un importantissimo articolo su Micromega. Recuperatelo. Dice fra l’altro:
“Un ventennio di neoliberismo incontrastato e un decennio di propagazione incontrastata del sistema dei social network ne hanno fatto un pubblico di individui magari colti e culturalmente aggiornati, ma fragili, sotto pressione, con pochissimi spazi collettivi, disabituati al dibattito, profondamente conformi alla propria “bolla” socioculturale. Nel momento in cui l’editoria letteraria non problematizza le caratteristiche di questo pubblico ma lo mette tale e quale al centro del proprio lavoro, nel momento in cui considera questo tipo di pubblico il cliente che ha sempre ragione, che tipo di letteratura si proporrà?
Difficilmente letteratura che sfida, che disturba, che rischia di offendere, o anche soltanto che mescola i punti di vista e confonde i piani di realtà; molto più massicciamente letteratura basata sull’immedesimazione in un personaggio che racconta con “autenticità”, con “credibilità” il proprio vissuto, la propria storia; letteratura con un protagonista che richiede la nostra piena empatia e quasi mai si mette e ci mette in posizione di contraddizione morale; letteratura non ambigua, in cui tutto è chiaro e definito (a partire dalla categoria merceologica a cui il libro appartiene: young adult, literary fiction, speculative fiction, upmarket women’s fiction, true crime, literary thriller, queer fiction; quando ho cominciato a lavorare nell’editoria non conoscevo nessuna di queste etichette che ora sembrano indispensabili per la costruzione del campionario)”.
E allora che si fa, eh?
Si approfondisce, maledizione. Si prova a capire quali che ognuna delle facce della medaglia contiene un’oscurità e una contraddizione. Non lo si è fatto o lo si è fatto molto poco. E il risultato è questo: non si riesce a problematizzare, non si riesce a discutere. Qualunque posizione rientra nella dicotomia “mutande alle statue/dannati sessisti”. Non è così facile.
C’è un altro punto, il più doloroso: se queste giovani donne pensano davvero che il solo porre la questione comporti la mutanda o la cancellazione della storia dell’arte planetaria, abbiamo un grave problema. E il grave problema non è solo loro. E’ di come si è posto il discorso dai tempi del metoo, almeno. Ai tempi, ho espresso le mie riserve sui modi. Mi è stato risposto che i modi non sono importanti, oppure che è necessario essere pop per arrivare al maggior numero di persone possibile.
Non mi sembra che ci siamo arrivati, anzi. Sicuramente essere pop fa ottenere più follower e vendere più libri. Ma io resto della vecchia opinione che esista una responsabilità nei confronti di chi ci legge e soprattutto delle persone più giovani. E al momento quel che constato è che quelle persone più giovani, per lo più, del discorso hanno preso la contrapposizione, che è esattamente quel che è stato loro proposto. E, no, non è un buon risultato.
Ps. Come scriveva Margaret Atwood in questo intervento, “una guerra tra donne, invece di una guerra alle donne, è sempre gradita a chi augura loro il peggio. Stiamo vivendo un momento veramente importante. Spero che non venga sprecato”.
Sono totalmente d’accordo.
Faccio mia la conclusione della Atwood -quale autrice la gradisco mderatamente- ” In periodi di estremi, vincono gli estremisti. La loro ideologia diventa una religione, chi non la segue è considerato un apostata, un eretico o un traditore, i moderati che stanno nel mezzo vengono annientati.”
Vale anche da noi: sarebbe il caso di evitare le schocchezze (tipo la verniciatura delle statue di maschilisti d’antan) e insistere sulle battaglie serie.
Si chiama “divide et impera”, cara Loredana, ed è vecchio come il mondo perché funziona sempre. In particolare con donne e minoranze sgradite.