Permettete uno sfogo. Sono di cattivo umore, nonostante la palestra e le relative endorfine, perché aprendo la posta mi sono trovata svariate richieste, in certi casi anche un filino imperative, per un passaggio di qualche libro a Fahrenheit. Ora, qui ripeto per la decimillesima volta che è alla redazione che vanno rivolte le richieste medesime e non a chi conduce, né via mail, né via messenger o instagram e neanche via piccione viaggiatore.
Ma approfitto per porre una domanda. Non a chi mi ha scritto, tranquilli.
Leggo sui social cose orrende sul libro di Gino Cecchettin, Cara Giulia, che è uscito ieri. Quando dico orrende intendo in senso letterale. Mi chiedo: perché non riuscite a credere a quello che io, nel mio assai piccolo, vedo invece come un gesto d’amore e di rimpianto? E lo scrive una che non ama molto, come è noto, i memoir (con i soliti distinguo) e che all’ennesimo libro dove si raccontano i propri cari perduti sospira un po’, un po’ tanto, anche quando sono molto belli.
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Ricordate Vermicino? Ricordate – anche se ora gli antichi commentatori tacciono pudicamente sull’argomento – come venne analizzato il volto della madre di Alfredino? E ricordate come il sospetto si insinuò, velenoso, per quell’assenza di lacrime, per quella compostezza che non poteva appartenere ad una donna dolente?
Ricordate Cogne? Certo che ricordate: impossibile dimenticare, dopo l’esibizione di zoccoli e mestoli in prima serata. Ma il giorno del funerale del bambino, i commenti, su tutti i giornali, riguardavano i capelli della madre, freschi di parrucchiere. Perchè una donna che ha perso un figlio non può mostrarsi in ordine, con un filo di trucco sul viso. Deve invece lacerarsi le guance, e strapparseli, quei capelli, a ciocche.
Oggi la ghiottoneria è Gino Cecchettin. Un padre, anziché una madre. Un padre che nel suo discorso pubblico è stato esemplare, e che ha saputo condividere il proprio immenso dolore con gli altri, per far sì che l’assassinio di sua figlia fosse almeno una scintilla per riflettere su quanto ci accade.
In rete, continuo a leggere moltissime donne che scrivono “io non avrei fatto così”. Madri a loro volta, radiose nelle fotografie che postano in compagnia di bimbi e cani, pronte a puntare l’indice su un altro genitore, e a dire quel che si è sempre detto: io non avrei fatto così, io sono, io penso, io giudico. A volte, come nel caso di tal Concita Borrelli, giornalista e autrice televisiva, si spingono oltre: ” Non accetto che nessuno punti il dito sulla società. Non esiste oggi una cultura fascista che semina morti. Il padre di Giulia stasera si è consacrato alla Sinistra. ”
Altri razzolano per i social cercando frasi della sua vita passata che lo mettano in ombra. Altre, ahinoi, molte altre, strillano cose agghiaccianti rivendicando “il diritto di dire la mia”.
Bisognerebbe forse dirci che questo diritto non c’è.