Quando si intraprende una discussione, ovunque la si intraprenda (qui, sui social, su carta, in televisione), c’è un problema di cui non ci si rende conto, almeno secondo me. Le parole. Che non si rinnovano, che mancano, che vengono ripetute fino a sbiadire. Parto dalle parole della sinistra: ma non degli esponenti politici di primo piano, bensì dei militanti o simpatizzanti o votanti o quel che vi pare. Sono sempre uguali. Le sento ripetere fin dagli anni Settanta, e allora avevano forse un senso: ma oggi sono automatismi, meccanismi  vuoti, non aderenti al reale.
Grazie al cielo, non sono la sola a rendermene conto. Questa mattina, su Repubblica, è Paolo Rumiz a denunciarlo: “la politica è fatta anche di parole, e fino a prova contraria le parole sono il mestiere di chi scrive. Ebbene, mi accorgo che esiste già di fatto un’egemonia della destra sul piano verbale, un’egemonia tale che i partiti di governo sono costretti a inseguirla penosamente”.
In un accorato intervento su Minima&Moralia, Matteo Nucci ha riproposto il discorso su Gaza. Sull’assenza di parole ancora una volta incisive e corrispondenti al reale su quanto sta avvenendo, con poche eccezioni.
Ci sono quelli che continuano a farlo, certo, da tempi non sospetti: penso a Wu Ming 1 e ai suoi Uomini pesce che stanno arrivando, penso allo stesso Rumiz, penso a Claudia Durastanti col suo non abbastanza compreso Missitalia, penso a chi è consapevole che la lingua è resistenza, qualora la si usi bene. E mi chiedo perché non ci riflettiamo abbastanza, e perché lasciamo andare quel che ci caratterizza da millenni. Perché non curiamo la parola fino a quando, come diceva Emily Dickinson, non comincia a splendere. O, se lo facciamo, lo facciamo per raccontare noi stessi, e non tutto il resto.