Tag: Nina Power

“In fin dei conti il drago è un predatore di ricchezze altrui, orrendo straniero nelle parole del poema, e inoltre sappiamo bene che i legittimi custodi dei tesori medesimi possono a loro volta diventare draghi comunque, come ci insegna la parabola di Thorin Scudo di Quercia”.

Così Edoardo Rialti nel suo discorso di accettazione del Drago d’oro per la traduzione a Dozza, poche settimane fa. Mi rivolgo alle parole delle storie perché non ne ho altre, e troppe ne verranno dette e scritte in queste ore. Non sono un’americanista, non ho le giuste competenze, e dire la mia conta come uno starnuto in una tempesta.
Però qualche sensazione posso condividerla.
Davvero chi ha votato Trump, come chi ha votato Meloni in Italia, pensa di ottenere una vita migliore alzando muri contro l’immigrazione e illudendosi di pagare meno tasse e avendo certezza di maneggiare più armi?
Perché a me continua a sembrare questo il punto: che cosa vogliono i votanti di destra per le proprie vite?
Ripesco un vecchio intervento di Girolamo De Michele (era il 2007):
” la paura non è più la risposta politica alla domanda di sicurezza, ma la situazione entro la quale viene contrattato un nuovo scambio sociale”.
E poi bisognerebbe ripescare Nina Power quando diceva che dovremmo smettere di desiderare “un’esca democratica”, la donna-emblema nei luoghi di potere, ma agire sul piano della rappresentazione prima ancora che della rappresentanza. Rovesciare il tavolo, come diceva Ursula Le Guin, invece di twittare gioiose perché, guarda, al potere c’è una donna (poi ci sarebbe la faccenda dei poteri buoni che non esistono, come cantava Fabrizio De Andrè: ma arriviamoci per gradi). (se ci arriviamo).

Ma qui occorrerebbe frugare nelle biblioteche e recuperare un libro del 2009, La donna a una dimensione della filosofa inglese Nina Power. In parole molto povere, Power parlava di come la narrazione popolare avesse trasformato il femminismo in tendenza alla moda, che “crede di dover lusingare il capitale per poter vendere con maggiore efficacia il proprio prodotto”: sempre in parole povere, quel tipo di femminismo, quello del “purché sia donna”, era entrato a far parte dei meccanismi di controllo sociali, “rappresentando un ostacolo a una vera critica del lavoro, del sesso e della politica. Quello che ha le apparenze dell’emancipazione, nasconde un’ulteriore stretta della catena”, con la stessa “blandizie” di cui parlava Michel Foucault. Potere, tacchi a spillo, privilegi, ricchezza, vite performanti, avventure notturne, tailleur firmati, divertimento forzato, ansia da prestazione. Sex and the City, certo: un mondo dove le donne sarebbero potenti come gli uomini perché in grado di licenziare un subordinato con lo stesso cinismo, di usare una carta Amex nera e di consumare sesso in una maniera considerata maschile. Non si parlava di scelte individuali, o indotte da una determinata condizione sociale (essere molto ricche a Manhattan): ma di identificazione in un genere sessuale. Una donna che agisce come un uomo.
E’ quel momento dell’anno in cui il blog si congeda: sarò nelle Marche da stasera agli inizi di settembre, mi affaccerò sui social ma non qui. Vi lascio con l’articolo che ho scritto per L’Espresso ai primi di luglio, per meditarci un po’ insieme. Abbiate un’estate felice, o voi del commentarium.

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