Come si forma un pensiero nonviolento? Forse, prima ancora dello studio e dei saggi e dell’esempio, dalle storie e dalle immagini. Fragole e sangue. Quel cerchio di studenti che battono le mani a terra, cantando “Give peace a chance”, prima di venir massacrati dalla polizia. Fermo immagine sulle mani alzate del protagonista, invisibile tra manganelli e lacrimogeni. Le note di “The circle game” di Joni Mitchell.
Il libro da cui è tratto il film di Stuart Hagmann è di James Simon Kunen, che nell’introduzione alla nuova edizione (in Italia pubblicata da Sur), dice: “Paradossalmente, da diciottenni che ancora non andavano a votare ci sentivamo di gran lunga più responsabili delle azioni del nostro paese di quanto non ci accada oggi. Prendevamo le cose in modo più personale. Ci sembrava che a bombardare il Vietnam fossimo noi, che fossimo noi a permettere che i meno ammanicati della nostra generazione andassero laggiù a morire. Oggi diciamo che sono i repubblicani ad aver dichiarato una guerra senza quartiere ai poveri e agli inermi.”
Sono passati quasi trent’anni da queste parole.
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