C’è un passaggio, in Le Conflit, dove Elisabeth Badinter lascia trapelare lo sconforto: nel giro di dieci anni, scrive, il femminismo fa testacoda, volta le spalle a Simone de Beauvoir e alle sue teorie (secondo le quali ciò che unisce donne e uomini è più importante di ciò che distingue) e torna a esaltare quelle virtù “innate” del femminile di cui la maternità è il cuore. Con tutto quel che ne consegue.
Ne consegue, anche, la rivolta delle figlie contro le madri: che è inscritta in una storia millenaria, ma che questa volta ha una particolarità in più, perché quelle madri sono coloro che si sono battute per l’indipendenza delle donne. Eppure vanno negate, esorcizzate: spesso a suon di stereotipi che vengono ripresi e diffusi soprattutto in ambito femminile. Ci vogliono uguali agli uomini, ci vogliono trascurate, vogliono uccidere la seduzione, disprezzano la bellezza, ostentano la sciatteria come una bandiera.
Falso, naturalmente. Considerato vero, altrettanto naturalmente. Niente affatto secondario, infine. Badinter arriva a sostenere che in virtù di questo l’unità delle donne si è infranta. Personalmente, sono più ottimista (appena un poco). A patto che si ragioni su quella che non è una piega del discorso, ma uno dei suoi centri: donne contro donne, secondo un parametro maschile. Donne contro donne, usando argomenti che feriscono. Perchè dal corpo, dall’idea di corpo femminile che è stata narrata nei secoli, non ci liberiamo: e se per ferire un uomo si usano le idee, per ferire una donna, ancora oggi, si usa il suo corpo.
Ci indigniamo, tutte, quando il presidente del consiglio insulta Rosy Bindi o – sembra- definisce Angela Merkel “non scopabile”. Ci indigniamo quando esponenti Pdl insultano una giornalista a suon di “nessuno ti spoglierebbe”. Eppure, reiteriamo gli stessi concetti, quando ci raduniamo a dileggiare altre donne perché non sono abbastanza ben vestite e curate. Ne parla in questo post Femminismo a Sud.
Poi, c’è l’aspetto contrario. Quello secondo il quale le donne viceversa seduttive, belle e attente a trucco e abiti non sono abbastanza intelligenti o degne di considerazione. E’ il drammatico errore in cui è incorsa la filosofa Francesca Rigotti in un articolo su L’Unità di venerdì scorso. Anche Rigotti fa testacoda, descrivendo due partecipanti a una puntata di Ballarò, Susanna Camusso, segretaria generale della CGIL e Annamaria Bernini Bovicelli, ministra per le Politiche Europee, in questo modo:
“Da una parte la femmina (indovinate quale delle due): fisico palestrato, taccazzi a spillo da vertigine, pettinatura elaborata e probabilmente studiata per far scomparire la fronte bassa, ma soprattutto eloquio aggressivo dal quale non trapelava alcun contenuto nuovo, se non la solita parte assegnata dall’alto, imparata a memoria (o letta sull’IPad) e declamata urlando; dall’altra la donna (anche qui, indovinare quale): normale, con la faccia non truccata e il fisico non palestrato, le scarpe basse e l’abbigliamento comodo ma soprattutto con la parlata pacata e intensa, piena di contenuti espressi con passione vera, di chi ha vissuto stagioni di lotta, di chi ha scelto di stare dalla parte dei lavoratori, degli oppressi, della parte debole, delle donne e quindi anche delle femmine, anche se queste non l’hanno ancora capito”.
Non una parola su quei contenuti. Solo sull’aspetto fisico, con la spaventevole identificazione del tacco basso con la parte giusta e di quello a spillo con quella sbagliata. Ora, quel che va ripetuto fino alla nausea, perchè non siamo riuscite a farlo passare, è che il femminismo storico e il neofemminismo attuale non hanno mai voluto nè vogliono gabbie, come dice Lorella Zanardo. Non vogliono modelli di donna ideale. Non vogliono modelli: bensì diritti, bensì la possibilità di cambiare un immaginario devastante che ha offerto alle generazioni cresciute negli anni Ottanta e Novanta una sola possibilità in cui rispecchiarsi, e non le molteplici che devono essere a disposizione di ogni persona.
Se non usciamo da questa divisione, se non spezziamo il donna contro donna, rimarremo, ancora una volta, ferme. E il testacoda finirà, tragicamente, contro un muro.
Sono completamente d’accordo. Penso che, al di là dei sicuri condizionamenti politici, culturali e sociali, sia anche difficile, e faticoso, evitare la trappola di sentirsi “superiori”, di sentirsi “meglio di”.
seguo con passione questo blog, non posso che condividere e continuare l’elenco delle discriminazioni culturali che impediscono alle donne di fare testa coda.
Cristina Comencini ( lettrice sin dal 1982 della Badinter) in due partite fa ripetere alle sue donne”non se ne uscirà mai”,io vorrei sperare che forse un giorno ci riusciremo a uscire da questa impasse come sottolinea la Lupperini “non è una piega del discorso, ma uno dei suoi centri: donne contro donne, secondo un parametro maschile”
due esempi a conferma di quanto detto:
perché se una donna si lancia in politica oltre ad esaltarne il fisico si esaltano le sue qualità di madre mai i suoi programmi o il suo livello culturale?
Perché s per un uomo è normale avere una sessualità piena e varia se lo fa è un gran fico e se invece una donna afferma le sue scelte di indipendenza sessuale rimane una prostituta?
e non posso che condividere la conclusione
Perchè il giudizio su un uomo – sia pure in tempi di grande attenzione all’immagine – si basa comunque sulle sue parole. Ancora oggi e nonostante tutto.
Credo che sia importante tirar fuori l’argomento, anche in modo doloroso: parlarne è almeno l’inizio di un percorso. Perchè a me fa male, personalmente male, verificare che a molte giovani donne sia stata data l’immagine sbagliata del femminismo, di ieri e di oggi. Anche e forse soprattutto per responsabilità storica del medesimo:ma è tempo di rimboccarsi le maniche, più che di cercare colpevoli, credo.
Che dire? Applausi.
Sono osservazioni di buon senso, ma di questi tempi il buon senso e’ una vera e propria rarita’. Meglio ribadirli, questi concetti
Poco da aggiungere, solo una suggestione: Susan Sontag che nella prefazione al libro Women di Annie Leibovitz, a proposito dei modelli imposti dalla fotografia e comunque dalla società dell’immagine in generale, ha scritto “la varietà stessa è un ideale. Oggi vogliamo sapere che per ogni questo c’è un quello. Vogliamo una pluralità di modelli.”
Che era quello che si diceva davvero anche negli anni Settanta, Seia. Ma si è fatto in modo di non ricordarlo. Ahi.
In effetti io sono cresciuta con un’idea del femminismo che non è quella che ho scoperto e sto scoprendo in questi anni, affrontando l’argomento, occupandomene e studiandolo, o anche solo leggendo libri come i tuoi o di Badinter, Sontag ecc ecc o conoscendo chi ha fatto parte del movimento. Le femministe erano donne arrabbiate, che rifiutavano l’uomo, che rifiutavano il sesso, che tendenzialmente si ghettizzavano. E io ne prendevo le distanze decisamente.
Ci sono stati errori da parte di chi ha fatto certe battaglie e poi si è chiuso nella propria elite, ma le generazioni successive a loro volta sbagliano perché non si documentano, non riflettono, non si interrogano.
Anzi sbagliano “quando” non si documentano, non riflettono, non si interrogano. Perché poi ci sono ragazze consapevoli e preparate, anche tra le giovanissime.
Ogni volta che si riparla di questo mi rattristo e mi perplimo moltissimo di fronte a questo testacoda. Io non ho partecipato alle lotte femministe, sono nata nel 1973, nè ho mai studiato o mi sono occupata specificamente di questo, ma mi è sempre arrivato che il femminismo, rispetto al corpo, ha rivendicato una cosa: libertà. Libertà di decidere del proprio corpo, di mostrare il corpo quanto si vuole, come si vuole, senza essere soggette a armature fisiche e estetiche imposte; o di fare l’amore con chi vuoi senza essere lapidata socialmente. Una libertà che prima non c’era, e dopo sì.
Secondo me in fondo è proprio quella libertà che disturba, profondamente, ancora oggi, forse anche più profondamente di quanto ci rendiamo conto, a giudicare dal “fuoco amico” (che contribuisce anche a alimentare l’equazione acrobatica femminismo=bacchettonismo).
Cara Francesca, ho paura che quella “libertà” sessuale di cui parli sia l’unica che è passata ed è quella che ci rovina la vita a noi trentenni di oggi. Magari fossero passati i diritti e tutte quelle belle cose, altro che libertà di spogliarsi, che poi non è passata neanche quella perché oggi tutti si aspettano grandi cose sessualmente da noi salvo poi giudicarci comunque e usarci. Bella conquista… Io sono una di quelle che del femminismo ha sempre avuto l’immagine che Loredana qui definisce non vera (e spero che sia così, anche se – se è questa l’immagine che un po’ tutte abbiamo e se la società che ne è derivata è questa – forse un po’ di vero ci sarà), di fatto sono “una femminista” per le mie idee e il mio modo di vivere ma una che mai si definirebbe tale (un po’ come tutte le mie amiche). Ho comunque cercato di confrontarmi con le autrici “femministe” e poi ho incontrato questo blog e altri affini e quindi sto cercando di mettere in discussione le mie idee (o i miei pregiudizi) e confrontarmi un po’, anche perché sono disgustata da ciò che ci circonda (vedi tv, rappresentazioni femminili neo media e nei discorsi sull’autobus).
Tuttavia sto facendo una fatica immane, in pratica sto andando completamente contro *me stessa* non so bene per cosa. Sento un’antipatia profonda dentro me per ogni discorso che si presenti come “femminista”, perché odio le etichette soprattutto legate alle questioni di genere, non mi ci trovo proprio, insomma… è un dolore! Mettici pure che le femministe “storiche” (così si definivano) che ho incontrato in carne e ossa (prof. all’università) erano realmente spaventose, l’incarnazione dei peggiori stereotipi, neanche a farlo apposta… un giorno ho trovato il coraggio di recarmi a una riunione di femministe alla libreria delle donne, di giovani c’eravamo solo io e un’altra ragazza – di uomini, zero – e ne sono uscita “spennata” perché avevo fatto un intervento non “ortodosso”. No, esperienze pessime. Comunque, ok, io ascolto.
Perchè questi discorsi così semplici, così evidenti, ragionevolissimi e inconfutabili, non passano? Perchè si preferisce rifugiarsi nella religione del femminile-materno contro ogni evidenza? Eppure pensavo di vivere nell’epoca della razionalità. Perchè ‘sta razionalità la mettiamo sotto le scarpe, contro noi stesse?
Ilaria, infatti non c’è una “colpa”, e sicuramente non è la contrapposizione vecchi/giovani quella da prendere in considerazione: ma la mancata trasmissione di un sapere. E questa è responsabilità della mia generazione, inequivocabilmente. Non abbiamo saputo parlare con voi. Continuiamo a non saperlo fare, da quello che racconti. Il risultato è che mentre in altri paesi la parola femminista è motivo di orgoglio (l’ho citato a proposito del convegno di Ferrara), qui è qualcosa di cui, se va bene, scusarsi.
Da qui dobbiamo ripartire: con chiarezza, semplicità, confronto. Confronto vero, non quello fatto di continue cattiverie e frecciatine, giorno dopo giorno, ora dopo ora. Confronto di idee diverse, e per questo importanti.
Grazie per aver detto con la chiarezza di cui sopra quali sono i disagi che avverti. E grazie, soprattutto, per l’ascolto.
io non conosco le stagioni del femminismo, sento parlare di differenza e uguaglianza, ma un possibile problema di fondo è che ogni movimento tende a trasformarsi in religione. già il fatto che uno pensa “le femministe sono” oppure “chi sono le femministe”. accade anche per i vegetariani, accade per qualsiasi insieme di pensieri e azioni che diventano gruppi di persone che diventano definizioni. e va bene. quel che non va bene è l’idiozia messa nero su bianco, io di cazzate ne penso a mucchi ma un articolo come quello scritto da Francesca Rigotti è idiozia pura, appare come un testacoda ma rivela un’incapacità di fondo. Francesca Rigotti non ha ragionato, chi le ha concesso lo spazio di un articolo pure, le persone che lavorano all’unità anche. le parole che dice le sento dire dalla “gente comune” che parla a vanvera come è normale parlare durante la giornata. bisogna ripartire dalle scuole elementari, dall’asilo forse. a, b, c… le persone che hanno da ridire su come ti trucchi hanno bisogno di tornare a scuola, dovrebbero smettere di scrivere, di fare qualsiasi cosa stiano facendo e tornare a scuola. a scuola si dovrebbe insegnare il corretto ragionamento, un po’ di sana logica. si dovrebbe anche insegnare a non giudicare le persone in base a cosa sono ( belle brutte intelligenti stupide ), insegnare innanzitutto che l’essenza è una stronzata, che non siamo niente, che il verbo essere è un verbo come gli altri, anche se ci inganna, anche se ne abbiamo un grande bisogno.
Dàje Loredà!
Mi sono laureata in filosofia politica con una filosofa, che solo a vederla – essì che era grandina – gli uomini visibilmente entravano in uno stato di enpasse. Il marito di una mia collega – quando da neolaureata lavoravo a una rivista – incontratala una sera a uno spettacolo, mi disse paro paro. Ahò quanto è bella la maestra tua. La maestra mia ci aveva già i capelli bianchi ma rovinava i maschi con gli occhi, con lo charme e anche con delle gonne ben scelte. Io credo. La maestra mia però ha scritto anche dei libri interessanti, ha diretto una rivista interessante e giacché non pagavo la retta al ministero per avere nozioni di trucco e parrucco – delle quali modestia a parte non avevo per altro gran bisogno – la maestra mia è stata per me un modello di intellettuale, più esattamente di onestà intellettuale. La maestra mia mi ha insegnato esattamente cosa vuol dire quando si ragiona filosoficamente o meno, evitare di raccontarsi cazzate.
Allora – quando si professa intellettualità e sinistra e progressismo e tutti i sacramenti impliciti in un articolo sull’unità – non ci si può permettere il lusso, da filosofe meno che mai, di cadere nel tranello delle cazzate.
Una nota a margine. Non ho mai condiviso l’idea amata da molti uomini e da molte donne – a’ solita Irigaray – per cui le donne si vestano per questioni antropologiche legate all’accoppiamento, per cui tradirebbero la propria identità e il proprio modo di essere seguendo logiche di compiacenza. Ho sempre pensato invece che, come sa bene chi frequenta la moda, per la donna vestirtsi era il recinto entro cui esprimere molte cose di se, l’esercizio di una libertà non solo meramente espressiva e relazionale, ma psichica e sociale, ed economica. Complicata come è complicato l’intreccio con cui queste cose strutturano le nostre personalità. L’articolo di Rigotti non sbaglia perciò in un certo senso a codificare sociologicamente vestiti e mentalità, a prescindere dall’errore grave e sessista di non qualificare pensieri ed idee delle donne di cui parla, ma ha un’idea davvero troppo poco articolata di come si combinino estetica scelte ed esperienze, così ingenua da sembrare poco credibile.
Volevo aggiungere anch’io qualcosa a questo dibattito http://27esimaora.corriere.it/articolo/guardando-la-giunta-rosa-di-pisapia-ma-dov%E2%80%99e-finita-la-carfagna/ Mi aveva molto colpito, ricordo che avevo proprio strabuzzato gli occhi mentre leggevo, non potevo proprio crederci 😀
Jo. Stavo per scrivere che anche io non posso crederci ma tocca crederci 🙁 Ecco uno degli esempi di trasmissione sbagliata e di, come sottolineava Zauberei, semplificazione (pericolosissima) di pensiero.
Ilaria, certo che le lotte per i diritti sono state fondamentali. Intendevo dire che quando il femminismo si è espresso in materia di corpo, ha espresso istanze di libertà, mentre ora lo si vuol far passare come opprimente bigottismo. La libertà sessuale è stata solo una delle manifestazioni, e purtroppo anche qui c’è stato un testacoda che, concordo con te, alla nostra generazione ha rovinato la vita: da sessualità libera(ta) si è arrivati alla sensualità come dovere (lo scrivevo commentando un post di qualche tempo fa su Erica Jong).
Comunque credo che sottrarre il corpo delle donne all’uso di un un potere esterno sia stata (sia) una battaglia fondamentale, perchè appunto sul corpo le donne sono state sempre (e sono tuttora) schiacciate, e ancora i nostri diritti sono più negati proprio su materie dove il corpo c’entra eccome (aborto, lavoro, maternità…). Sicuramente ci sono state distorsioni, e eterogenesi e involuzioni. Però, e forse non mi sono espressa bene, volevo dire che questo non può oscurare il lascito fondamentale del femminismo “storico”, che mi sembra proprio non lasciare che il corpo debordi là dove dovrebbero esserci diritti, compreso quello di essere criticate o lodate per le proprie affermazioni e non in base al tacco o alla pettinatura.
Leggermente OT… ma forse la scelta della Rigotti è solo un’altra prova che alla fine ciò che ci muove è spesso solo il nostro stesso interesse, come lo studio chiamato “Like Daughter, Like Father: How Women’s Wages Change When CEOs Have Daughters” (“Tale figlia, tale padre: come cambiano gli stipendi delle donne quando gli amministratori delegati hanno figlie”) basato su 12 anni di studi ha osservato come la nascita di una figlia porti gli amministratori delegati a ridurre le differenze di stipendio fra donne e uomini nelle proprie aziende.
Credo infatti che la Rigotti avrebbe scritto cose molto simili anche se in trasmissione ci fossero stati due uomini. Alla Rigotti importava solo evidenziare che esistono due poli: forma e contenuto, che secondo lei non possono coesistere e dove contenuto è meglio di forma.
Molti rimasero spiazzati quando Marchionne iniziò a presentarsi con il maglioncino al posto della giacca. Incompatibile con la figura del manager rampante e senza scrupoli.
Non si tratta quindi per me (solo) di spezzare il donna contro donna o favorire lo uomo pro donna, ma (soprattutto) si tratta di lasciar da parte l’interesse personale per quello comune.
(Qui il link allo studio della Columbia University)
http://congedoparentale.blogspot.com/2011/05/dalla-parte-delle-bambine.html
Forse un po’ ot.
Ieri, in famiglia, mi ostinavo sull’uso anche femminile di una parola.
A un certo punto mio marito mi definisce ironicamente “femminista”.
Gli ricordo, scherzando, che esiste pure una legge che tenta (tentava?) di appiattire le differenze nel linguaggio. Per tutta risposta, ridacchiando e di fronte a mio figlio, salta fuori con:…”le femministe hanno i baffi, ecc….” :-((
Sono sconsolata! Che fatica, hai voglia a parlare, a leggere, a discutere.
Mi spiace ma non riesco più a riderne e a prenderla con leggerezza.
Essì, sono d’accordo che la mancata trasmissione del sapere femminista sia una delle più gravi responsabilità della vostra generazione. Certo, è un compito difficilissimo, le figlie spesso adorano andare contro le madri, soprattutto quando le madri hanno un atteggiamento troppo prescrittivo oppure semplicemente perché constatando il fallimento di alcune madri, alcune figlie non reputano intelligente il seguire i loro consigli. Quindi viene voglia di inventarsi nuovi modi per lottare finendo per cadere comunque nella trappola ‘patriarcale’. La visione negativa del femminismo che abbiamo lentamente assorbito sarà molto difficile da correggere anche perché spesso il femminismo è visto come un giudice che vuole dare le sue norme, e per questo allontana le giovanissime che vogliono prima di tutto libertà. E poi, non so, ci sono così tanti femminismi, tante teorie, che per capirne la complessità e gli intrecci ci vorrebbe una vita spesa solo per questo, e nel dubbio se ne valga la pena o meno, molte/i si perdono per strada, con il loro carico di pregiudizi che inevitabilmente trasmetteranno agli altri. Questo è quello che penso e sento io, che come Ilaria mi vedo contrapposta tra spinte differenti, tra il volere sapere e capire e provare a cambiare le cose partendo dalla mia vita e il sentire qualcosa che mi spinge via lontano, perché tutto sembra ripetersi sempre allo stesso modo e nulla si può scardinare fino in fondo.
Sulla trasmissione dei messaggi dal femminismo passato alle ragazze che sono venute dopo, se ne discute un po’ dappertutto, e per evitare di spammare anche qui con i due concetti che ripeto ovunque, ecco un link su cui si è abbozzata una discussione http://suddegenere.wordpress.com/2011/10/27/politica-potere-e-desiderio/. Sul trucco, la moda etc., premettendo quel che ripete ognidove Lorella Zanardo, cioè evitiamo di costruirci altre gabbie per distruggere quelle che non ci piacciono, vi porto la mia modesta esperienza di contatto con le ggiovani: ce n’è di tutte le scuole, quelle in tiro già nel biennio secondo i dettami del velinismo televisivo, che mentre stanno a lezione si controllano lo stato delle unghie decorate e cercano di non scomporsi troppo per non rovinarsi make up e acconciatura, e quelle che si vestono e acconciano secondo gli attuali vari dettami (più lassi, immagino) delle varie scuole di pensiero giovanili. Devo dire che queste ultime mi mettono più a mio agio, ma perché? Perché mi ricordano quando ero gggiovane io. E per quanto riguarda il discorso generale sulla moda, l’abito, l’immagine personale, d’accordo con zaub e, partendo da me, come ogni vetero -femminista deve fare, dichiaro: nella mia vita mi sono truccata o non truccata a seconda delle diverse fasi, che non avevano niente a che vedere con l’età, né con esigenze seduttive. Ho attraversato i looks (modi di vestire, acconciature) più diversi e contrastanti, e delle ragioni ci saranno state ma, appunto, erano ogni volta diverse e complicate. Non solo, mi trucco o non mi trucco a seconda della contingenza, e quasi sempre secondo logiche che non sarebbero quelle di un’altra donna. Così per gli abiti, cercando di restare dentro il buon senso, o quello che io reputo tale. Su una sola cosa non transigo: non metterei mai scarpe con tacco, evitando però di dettare la pratica a tutte le altre. Ciò che non mi impedisce di vedere che esiste una divisa (tipo Bernini, per intenderci) in cui ciascun elemento, compresa la scarpa col tacco a spillo, vuole comunicare qualcosa, ed è quel qualcosa che non mi piace, non la scarpa col tacco.
Condivido parola parola il tuo articolo. Dissento totalmente dalla frase di Francesca Rigotti, anche se avesse le scarpe basse, fosse senza trucco, con un fisico non palestrato e votasse per la parte giusta.
Ma sono argomenti, quelli?
Per chi fosse interessato alla piattaforma per Iniziativa Femminista (Feministisk Initiativ, il partito femminista svedese)
http://www.feministisktinitiativ.se/italienska.php?text=plattform
La sezione in italiano non è molto sviluppata, lo sono di più quella in inglese ed in francese (ed anche quella in spagnolo)
http://www.feministisktinitiativ.se/engelska.php
http://www.feministisktinitiativ.se/franska.php
Vedere che Ilaria – non è un attacco a te, beninteso – usi le “” per incorniciare la parola femminista mi ha fatto tornare in mente la potenza di questo termine. Ormai da qualche anno io mi definisco con convinzione e serenità un uomo femminista, una persona femminista. Un uomo gay femminista. Un femminista mi convince poco. E trovo che le “”, al contrario, rivelino tutta la portata simbolica del termine, tanto che, appunto, non lo si può scrivere come si scrive casa, ombrello, ma solo virgolettato. Quasi fosse un azzardo, un uso improprio. Uno non può essere femminista, ma soltanto “femminista”.
In un periodo storico, politico e sociale come questo, sia d’obbligo essere femminist*. Spesso penso alle teorie di genere, queer e agli studi delle donne come vere e proprie discipline universitarie: all’estero esistono da decenni, da noi fanno appena capolino. NOn di rado mi viene chiesto come penserei di avvicinare questi corsi a, non so, storia della letteratura russa oppure linguistica generale. La mia risposta è facile: hanno una diversa priorità. Sono russista di formazione, e dedico alla cultura russa tutto il mio tempo, ma vedo chiaramente che è necessario risolvere d’urgenza le questione di disparità e di disequilibrio tra i generi, altrimenti parlare di Tolstoj in una società fallita non avrò alcun senso.
Femminista vuol dire impegnato affinchè le donne, che sono tra i soggetti più umiliati e frust)r)ati della società, riacquistino lo spazio che meritano, nel benessere di tutti.
Sulla mancanza o sulla parzialità del passaggio di conoscenze tra la generazione femminista passata e le giovani, in senso lato, di oggi, non posso che convenire.
E’ anche vero però che non possiamo imputare a questo gap ogni stortura, ogni ragionamento fallace e scivoloso che proviene dalle donne (o dagli uomini) quando parlano di donne che rivendicano diritti: chi incede a suon di luoghi comuni e stereotipi (la femminista che aborre la depilazione, quella che nutre i falò di wonderbra, quella che veste con zoccoli e gonnellona, ecc.) ha evidentemente abdicato alla conoscenza e preferisce rintanarsi nel pregiudizio funzionale al sistema che quel pensiero cerca di annichilire (quanto comodo fa al patriarcato dipingere le femministe come brutte, sessuofobiche e aggressive, che minacciano la libertà di coloro che si prendono cura del proprio aspetto fisico?).
Io sono del 75, e non mi pare di essere cresciuta con una particolare consapevolezza sulle questioni di genere, anzi. Eppure mai sono caduta nel tranello di decontestualizzare chi scendeva in piazza a bruciare reggiseni, o a non capire che dietro la scelta (personale) di non sottostare a determinati diktat relativi alla bellezza e alla moda (vedi depilazione e abbigliamento) c’era una questione politica e pubblica. Se penso alle femministe di un tempo, penso a quello che io oggi posso fare grazie a loro, non ai peli superflui.
E non è una questione di cattive o buone maestre: si tratta di intelligenza (e ne basta poca), buon senso, e onestà intellettuale, oltre ad un minimo di volontà di informarsi.
Loreda’, se non ci fossi tu. E ciò che è bello è che io lo sento, lo SENTO, che queste non sono solo parole, non sono solo “post”. Spero che capirai il senso di quello che sto per dirti (che è una roba che mi viene così, d’istinto): a me tutto questo sembra davvero “politica”, à la Gramsci.
Leggo spesso sia Lipperatura che Femminismo-a-sud, ma non commento quasi mai e in genere non parlo mai di me e della mia emotività come, invece, ho fatto ieri sera, spinta dal post di Femminismo-a-sud. Non riporto il mio commento qui, non mi sembra il caso, ma con quelle premesse lì, ti ringrazio per questo post.
In seconda battuta, passo a un’analisi più “politico/filosofica”: stamattina, su Twitter, giravano le voci sulla caduta di Berlusconi, ci si divideva tra i contenti e quelli (tra cui la sottoscritta) che “il dopo sarà peggio”. Wu Ming ha girato questo post su Giap risalente al 2010, in due parti, dall’evocativissimo titolo -Note sul “potere pappone” in Italia- (link qua: http://www.wumingfoundation.com/giap/?p=1675).
Ho fatto un po’ di link mentali tra le suggestioni di stamattina, questo post di WM1 e quello di Femminismo-a-sud, con annessi commenti, di ieri sera: secondo me, il pezzo che riporti, della Rigotti, è la metafora perfetta di una pseudosinistra (intesa come mix di sinistra istituzionale più istanze popolovioliste e similari) che ragiona a compartimenti stagni e vede Berlusconi & corte come unico nemico e quindi la pornocrazia, il corpo-merce e le “puttane” come incarnazione del nemico riuscendo ad opporre a questo immaginario solo ed esclusivamente un controimmaginario puritano (alcune istanze della manifestazione “Se non ora quando”, che decantavano un’opposizione donna=madre, moglie come il bene VS donna=puttana come il male spiegano bene tutto il discorso di prima).
Mi sembra di trovarmi in Inghilterra, al punto di passaggio tra Carlo I e le sue istanze assolutistiche e il puritanesimo di Cromwell, che non è stato un bel periodo, almeno da quello che mi ricordo delle lezioni di letteratura inglese e di storia al liceo. Lacrime e sangue.
Cheers. E ancora grazie per il post.
Eveblissett
Solo una cosa.
La questione del femminismo in salsa italiana – che ancora oggi caro Amedeo prende i queer e gender studies a ricche mazzate e ci si mette in rotta di collisione – non ha creato una eredità scomoda e una reazione negativa solo per incapacità comunicativa. E non è solo la questione delle figlie con le mamme, ma anche una questione stretta di atteggiamenti mentali e di contenuti, che ancora oggi io quando li ritrovo faccio fatica a bypassare a non incagliarmici sentendomi alla fine sempre molto irritata. L’esperienza che cita Ilaria io l’ho avuta uguale e identica, e personalmente la rivivo in diversi luoghi della rete, per cui alla fine me ne ritiro. Non mi interessano quei linguaggi, non mi interessa l’aggressività contro il maschile e l’ipostatizzazione di un certo modo storico di essere state donne, arrivo a un doppio motivo di conflitto e incazzatura quando sull’onda di “il personale e politico” si propina psicologia spicciola e arretrata, con la quale ci si permette di liquidare in maniera aggressiva vicende di uomini e donne. Vivo questa cosa come un problema perchè capisco che non si riesce a fare una rete per una questione di visioni del mondo che non collimano e non per altro, anche se alla fine di obbiettivi comuni ce ne sarebbero molti.
Solo che sono comuni anche per gli uomini, ma non se ne accorge – quasi – nessuno.
Ahimè, cara zauberei, hai ragione.
Scusate, ho sbagliato ad inviare.
Volevo dire che sì, Zauberei, hai perfettamente ragione. IN occasione di riunioni femministe, presentazioni di libri o incontri simili, è capitato anche a me di essere guardato con sufficienza e scettismo, quando non con astio. Eppure. Credo sia importante capire come, negli anni ’70, fosse non indispensabile, ma almeno utile chiudere fuori gli uomini dai discorsi e dalle espressioni delle donne – una femminista ormai vecchia mi disse: “Se c’erano 100 donne e un solo uomo – compagno! – restavano tutte assolutamente zitte.”
IN molti individuano il grosso limite del femminismo in questa chiusura, nel suddetto caso verso gli uomini. Io trovo importante contestualizzare.
Ma ripeto. Oggi ci sono altri sguardi, altre prospettive migliori, più piene, più complete, più larghe, più umane, che è un grosso errore trascurare. Siamo d’accordo.
Quello che mi sembra non sia passato alle nuove generazioni è che la lotta riguardante sessualità, contraccezione, aborto, divorzio era contro qualcosa che opprimeva e uccideva: c’era il contatto con realtà a volte terribili, c’erano racconti in prima persona degni di una macelleria, fisica e psichica, e c’erano i dubbi e i conflitti personali laceranti. E c’erano anche le prese di coscienza tenere e obbedienti dei ragazzi che, confusi anche loro, cercavano di costruire rapporti diversi. Tutto questo era quotidiano: ogni giorno un centimetro strappato a genitori, istituzioni, amicizie, medici, insegnanti, colleghi. Questo ci ha cambiato la vita, anche e soprattutto nel quotidiano.
Francamente, fuori dalla grande città, ho visto la mancanza del cambiamento, fatto ogni giorno, nelle piccole cose: rifare letti, cucinare o fare la lavatrice, essere multitasking, tutto come ‘prima’. Ora, mi sbaglierò, ma può darsi che tutto quel leggere, sperimentare, dibattere e dibattersi, cambiare le regole, parlarsi per ore, ecc., non abbia avuto il tempo di spargersi per tutto il paese, di insegnare nuove abitudini, e che non sia stato il ‘quotidiano’ di tutte – sì e no per sentito dire…
Perché l’equilibrio, se ce n’era bisogno, e l’uguaglianza, avrebbero dovuto consolidarsi dopo: come diritti e parità di genere, servizi, sanità, ovunque. Uno dei problemi per me è: perché non è stato considerato da tutti (come è accaduto in altri paesi) ineludibile e necessario un cambiamento di attitudine?
Sono d’accordo con Amedeo, la chiusura è (stata) un altro problema fondamentale e credo che il suo apice si sia raggiunto con il ‘separatismo lesbico’. Il femminismo e il lesbismo, pur avendo dei punti in comune, hanno mostrato un rapporto molto complicato in passato e spesso conflittuale, e anche qui troppe le divisioni che frammentano l’energia.
E se fosse venuto il momento di occuparci della parola femminismo, scandagliare bene il grumo di senso che contiene e aggrega, per poi superarla? Procedere da quella e usarla come trampolino di lancio verso altro, verso qualcosa che si incarni un po’ meglio nel presente e oltre?
Per non essere fraintesa mi spiego meglio: nonostante sia stato ridotto a un cliché, e quindi faccia scattare resistenze istintive in un paio di generazioni intere, dentro e dietro la parola “femminismo” c’è moltissimo, in termini di pensiero fondativo per tutte. Se l’errore nostro fosse quello di non riuscire a trovare un nuovo nome, un tag adeguato, una bandiera sotto la quale mettere quel che di fondamentale ci è arrivato da lì ma anche tutto quello che è venuto dopo? Perché continuare ad essere fraintese, banalizzate e demonizzate per una pura questione di storia della lingua? Intorno alla parola femminismo – ammettiamolo – in Italia c’è un’aura negativa che zavorra e che a molti piace alimentare. Non facciamoci fregare, forse si può andare oltre anche nel lessico, nelle “parole per dirlo”.
@eliana, capisco, ma sono in disaccordo, proprio dal punto di vista linguistico, perché penso che quando una parola, qualsiasi parola, è stata oggetto di mistificazione, non bisogna abbandonarla al campo avverso, bisogna invece riprendersela, e demistificarla, a parole e a fatti.
il vantaggio paola poi è tutto della parola, quando fondamentalmente a me importa più delle cose….
eh ma sulle cose il commento sarebbe stato troppo lungo e vado di corsa 🙂
Grazie per l’accoglienza 🙂 Io a volte penso che forse la trasmissione del “femminismo” sarebbe dovuta/dovrebbe avvenire più a livello implicito di contenuti che non come racconto delle gesta compiute dalle nostre mamme nei mitici anni ’70. Non per sminuire queste gesta, ma perché finché il racconto rimane “lì”, vuol dire (forse) che non è passato altrove. Esempio pratico: l’altro giorno riflettevo su una cosa: mia mamma, nata nel ’51 e prima donna laureata nella sua famiglia, ha sempre lavorato pur avendo messo al mondo due figlie quando era appena laureata. Io l’ho sempre vista lavorare e son cresciuta con la baby sitter. Ma di tutto questo lavoro, cosa mi ha trasmesso mia mamma? Niente… se non affanno e risentimenti vari. Non l’ho vista realizzata nel lavoro e non mi è arrivata la sua passione né il suo orgoglio, benché fosse il lavoro per cui si era preparata e non un ripiego. Invece chi mi ha trasmesso tutto l’amore e l’orgoglio per il suo lavoro (lo stesso di mia madre, cioè l’insegnamento) è stato mio padre (mio padre si è occupato della famiglia più di mia mamma quindi non si può neanche dire: “Ah, ma lui da uomo ha potuto concentrarsi solo sul lavoro, bella forza!”). Da cui il mio desiderio di essere come LUI, desiderio che mi ha sempre sostenuta nei miei studi, nei miei obiettivi e nelle mie scelte di vita. Parlando con le mie amiche, in molte condividono la stessa esperienza: cioè del lavoro di queste mamme, cosa ci è arrivato? Io dentro di me pensavo che al cuore del femminismo ci fosse il voler aprire alle donne le strade per affermarsi nel mondo, soprattutto grazie al lavoro, più che attraverso la liberazione sessuale… invece forse avevo pensato male. Le donne sul lavoro non ce l’hanno (ancora) fatta. Ma io ritengo che fin dall’inizio avrebbe dovuto essere quello il punto – l’affermarsi nella società tramite il valore del proprio lavoro (i contenuti) – e non tramite l’uso libero del corpo, che poi si è rivelata un’arma a doppio taglio e infatti anche noi donne (come si evince dagli esempi riportati anche in questo post) siamo qui a giudicarci per aspetti esteriori (il tacco, il trucco ecc.). Io quelle donne che mettevano le mani a triangolo non le capisco proprio… anzi penso che abbiano sbagliato alla grande a puntare su quello. La liberazione sessuale sarebbe venuta come conseguenza della realizzazione sul lavoro e nella società e cioè della vera indipendenza, secondo me. Ho l’impressione che avere puntato sul corpo ci abbia fatto male perché in qualche modo andava ad avvalorare, anche se con intenti diversi, lo stereotipo “donna-natura-corpo” nel quale eravamo ingabbiate.
Quoterei la zauberei per quanto riguarda le idee sulla moda e sull’espressione del sé e sul fatto che la filosofa ha tagliato un po’ tanto d’accetta una questione complessa. Detto questo – e scusate ma non credo sia OT – ci sta cadendo in testa una crisi economica spaventosa il cui conto lo pagheranno anche le donne, ricacciate a forza in casa o in altro modo. Per me un femminismo senza tener conto anche di questioni di classe e di economia non ce la fa a stare in piedi. Così come reggono poco analisi di classe ed economiche che non tengano conto della questione di genere. Se poi dovesse arrivare qualcuno/a con una proposta seria per uscire dalla crisi non sarò io a farle/gli le pulci perché, magari, ha un’estetica non condivisa.
Un articolo tutt’altro che recente, inoltre non lo propongo perchè ne abbia un’idea già chiara. Così, lo faccio per continuare questa nostra conversazione. E perchè ho il piacere di conoscere le due autrici, dalla forza incontenibile.
http://cerca.unita.it/ARCHIVE/xml/305000/304887.xml?key=Edda+Billi+E+Paola+Mastrangeli&first=1&orderby=1&f=fir
@barbara, d’accordo, se le società sono basate sulla gratuità del lavoro di servizio domestico e familiare, allevamento, cura e accudimento svolto dalle donne, tanto per cominciare, tutte le analisi economiche non possono non tener conto delle questioni di genere; mi ripeto: quell’antiquato di K. Marx diceva che la prima forma di asservimento era stata quella degli uomini sulle donne, dove la parola asservimento aveva un preciso significato socioeconomico, indicando la creazione di un vincolo di tipo servile, dove chi è soggetto offre servizi, e rinuncia alla libertà di movimento, contro mantenimento in vita e protezione. @Paola Di Giulio, grazie per aver fatto un po’ di storia, o per aver contestualizzato, come direbbe Amedeo: le “ragazze” non sanno spesso che quello che per loro è scontato, ovvio, acquisito, non ci è stato regalato, è stato strappato dal pensiero e dall’azione delle donne; consiglio il libretto di Vittoria Franco, “Care ragazze” Donzelli 2010. @eliana: è vero che l’oggetto della trasmissione memoriale non deve essere qualche trionfalismo, ma devono essere i contenuti. Bene. Le donne in Italia (ma anche altrove, ma soprattutto in Italia) hanno difettato su questo punto, ed è ai contenuti che mi riferivo quando parlavo di trasmissione dei messaggi. Il pensiero della differenza mi interessa ma non mi entusiasma: quando consiste nell’ “l’ipostatizzazione di un certo modo storico di essere state donne” non so che farmene, dato che la mia visione storica delle cose mi impedisce di ipostatizzare alcunché. A proposito, questa definizione potrei averla formulata io, ma l’ha fatto prima zaub, e quindi la citerò ogni volta che la uso! Per il separatismo: è nato come esigenza di metodo, è una pratica, un mezzo, non un fine, ma non vorrei ripetere cose già dette. Dopo aver fatto il nostro momento separatista, possiamo pure andare a gozzovigliare con gli amichetti, per dire, oppure andare fare politica con essi loro, fortificate e autenticate dal nostro momento separatista: insomma le cose stavano così, ed oggi tendono a riproporsi così, per molte donne, si vede che è proprio una necessità. Del resto il separatismo, come metodo, vedo lo stanno ripraticando gruppi di uomini che riflettono su di sé. @eliana: il corpo è mio significava che la giurisdizione sul proprio corpo era delle donne, e non di qualche altra persona, autorità o istituzione: ma con questo torniamo al contesto storico. Ma anche ad oggi: il movimento femminista degli anni ’70 contestava proprio una visione ad uso maschile del concetto di liberazione sessuale sessantottistica. E da diversi decenni agisce la mistificazione del concetto di liberazione sessuale = tettaculismo, velinismo, etc. per rimanere all’immaginario mediatico, così che l’ennesima forma storica di disponibilità del corpo femminile alla fruizione maschile, che è stata impartita come cultura di massa dai pulpiti mediatici, ha fatto immaginare a tante donne che questa forma contemporanea di espropriazione dei corpi delle donne fosse un esito del femminismo.
Spinta dagli ultimi commenti, sono andata a leggermi il capitolo di Amartya Sen intitolato “Classe, genere e altri gruppi” in “La diseguaglianza”. Non ho trovato molto di rilevante per ciò di cui si parla qui, ma ci sono rinvii bibliografici utili, e una frase che conclude il paragrafo su genere e diseguaglianza: “La questione della diseguaglianza fra generi ha in ultima analisi a che vedere con le disparità a livello di libertà”.
Ilaria (del 7 novembre): mi colpisce moltissimo il tuo commento. Non è per citarla sempre, ma c’è una sezione di Le conflit (o Mamme cattivissime che dir si voglia) dove Badinter parla esattamente di storie identiche alle tue: figlie che non si sono sentite trasmettere passione, ma che si sono sentite sottrarre tempo. E’, obiettivamente, un problema, e forse non ci abbiamo fatto abbastanza i conti.
solo una citazione morettiana: vi amo, voi tutte che siete in questo blog 🙂
(e per una volta il femminile è in senso inclusivo)
@Loredana: grazie per la segnalazione, a questo punto voglio leggerla anch’io, perché questo della trasmissione “mancata” è un punto che a me sta molto a cuore e penso sia importante ragionarci su… anche perché io, invece, vorrei cercare di riuscire a trasmettere alle più giovani (che siano mie future figlie o altre) la mia passione e il mio impegno 🙂
un po’ OT ma su approvazione della Loredana segnalo post e commenti http://leonardo.blogspot.com/2011/11/sporco-maschio-guardami.html#comments
A proposito di quello che dice Ilaria, della trasmissione mancata: mia madre è nata in un minuscolo paesino cattolicissimo della campagna piemontese. E’ andata via di casa a diciassette anni per lavorare a Savona, prendendosi con enormi fatiche un diploma come educatrice viaggiando tra il lavoro e la scuola a Milano. Ha convissuto prima di sposarsi e mi ha sempre parlato laicamente di contraccezione, aborto e via dicendo.
Nonostante avesse scelto il suo lavoro e l’avesse fatto con passione, però, non è mai riuscita a trasmettermi quell’ambizione, quella voglia di andare alla ricerca della propria strada. Mi ha trasmesso invece l’orgoglio del denaro, dell’essere economicamente indipendente, a prescindere dal lavoro e dal proprio benessere. Colpa del femminismo? No, ovviamente. Più probabilmente colpa del fatto che, avendo uno stipendio più basso di quello di mio padre (stipendio che sarebbe finito direttamente in mano alla baby sitter), dopo due figlie è rimasta a casa. Il fatto che a 27 anni io ancora non sappia che accidempoli voglio fare “da grande” e non faccia molto per tirarmi fuori dal gorgo dei lavoretti insulsi credo c’entri qualcosa con questo. Se mai avrò una figlia, quante sono le probabilità che io le trasmetta una devastante filosofia del tirare a campare? Tutto questo per dire che le condizioni materiali, alla fine, assai spesso riescono a sconfiggerti, ed è per questo che bisogna lottare tanto per cambiarle.
@Adrianaaaa, una cosa che si nota adesso, è che i genitori che possono, stanno cercando affannosamente di ‘tramandare’ ai loro figli quel che hanno conquistato in termini di casa, lavoro, sicurezza insomma.
Grande importanza ha il denaro, molto più di quanto si pensi credo, perché è il mezzo per assicurarsi l’indipendenza, ma soprattutto per assicurare un tipo di vita che non viene tutelata da niente altro.
In generale, parlando tempo fa con le figlie, ora tra i 25 e i 30 anni, di amiche che avevano dedicato tutta la vita al lavoro, la grande accusata era la Tv, che aveva fatto da matrigna nella loro adolescenza. Poi l’essere state preservate da molte incombenze quotidiane (la madre o chi per lei lo facevano meglio e prima). Poi il non avere avuto vicino interlocutori ‘compassionevoli’ quando c’erano dei problemi, ridimensionati regolarmente dai genitori non per indifferenza, ma perché se non era una cosa seria era meglio affrontare altro – almeno dal punto di vista organizzativo. Poi il benessere materiale, e l’iperprotezione volta spesso ad evitare tutto ciò che avrebbe potuto essere un ostacolo (gli ostacoli che avevano avuto le loro madri).
Secondo le figlie, vedere le madri controllare al volo tutto il possibile, fare equilibrismi affannosi tra colloqui a scuola, festicciole, pranzi/cene, spesa, ecc . non ha trasmesso loro l’idea che quel modo di lavorare fosse un impegno positivo ma quasi un sistema per non stare in casa. So che non è vero, le loro madri hanno lavori impegnativi e appaganti, considerati importanti anche per la possibilità di dare ai figli le possibilità che loro non hanno avuto.
Forse la cosa che più mi ha colpito è stato poi il lamentarsi di non aver potuto stare con i nonni e condividere il passato, i loro ricordi…. (problema delle grandi città, credo).