In The Boys, splendida e crudelissima serie televisiva tratta dal fumetto di Garth Ennis e Darick Robertson, i supereroi sono bulli, feroci, violenti, arroganti. Insomma, umani, a dispetto dei superpoteri. E sono soprattutto fruttuosi dal punto di vista dell’incasso. La Vought, la multinazionale di cui sono a tutti gli effetti il prodotto, gestisce un fiorentissimo merchandising che li riguarda, film e pupazzi e bibite e tutto quel che potete immaginare. Dunque, la Vought è molto attenta agli umori del pubblico. Nella prima stagione, quando uno di loro, The Deep, o Abisso, che parla con le creature del mare, molesta sessualmente Starlight, ultima arrivata nel gruppo dei sette, la Vought monta uno scandalo (e lo licenzia) per cavalcare l’onda montante del Me Too (la serie è del 2019). Nella seconda stagione la vicedirettrice della Vought, Ashley Barrett, sogna l’ingresso di un disabile o di una donna per “far impazzire il pubblico”. Una donna arriva, in effetti, in un tripudio di flash e di inni al potere femminile eccetera: peccato che Stormfront, alla prova dei fatti, si riveli alquanto nazista.
The Boys non può non tornarmi in mente a proposito della decisione dell’Academy di Hollywood di ammettere agli Oscar solo i film “inclusivi”. Leggo: ” il 30% del cast dovrà essere composto da due tra le diverse categorie: donne, afroamericani, ispanici, appartenenti alla comunità Lgbtq, disabili”.
Non mi torna, spiacente. Sono convinta da anni che l’inclusione si raggiunga con un lavoro culturale e non con un’imposizione che puzza di strizzata d’occhio all’incasso, appunto, come quando per la Torre nera, tratto da Stephen King, il protagonista divenne nero non per bravura di Idris Elba (che è bravissimo, ovvio) e non perché avesse altro senso se non quello di proporsi come inclusivi, e dunque incassare. E’ la stessa falsa coscienza di quando qualcuno ti manda un libro dicendoti “qui si parla di donne, eh”, come se fosse il requisito indispensabile per giudicare la qualità e la coerenza di una narrazione, e senza quella qualità e quella coerenza non si rende affatto un buon lavoro all’appianarsi delle diseguaglianze nell’immaginario e nella realtà. Si chiama, nel caso, pinkwashing.
L’inclusione comporta il saper vedere, capire, interessarsi davvero. E lasciare la parola a chi scrive film, libri, storie che riguardano la realtà che si vuole includere, e che conosce benissimo, semmai: ovvero essere attenti a tutte le opere che dalle realtà “non incluse” emergono. Non è la questione della libertà artistica che invoco: è proprio una questione di semplificare una faccenda complessa e fondamentale, e che richiede un lavoro lungo, paziente e capillare. Questa roba qua è identica alla strategia di marketing della Vought. E credo, o auspico, che alla fine della serie alla Vought non vada benissimo.
Mi piace molto invece, grazie Loredana. Ho sempre più spesso l’impressione che chi legge, ascolta, guarda prodotti culturali sia più attento e consapevole di quello che poi effettivamente viene proposto. E si mettono queste pezze raffazzonate che poi nessuno prende davvero seriamente.
Tanto marketing e “washing” di vario tipo, nulla di più (come in molti altri settori, purtroppo).
dove si sottoscrive?
Io invece obbedisco al titolo 🙂
Per due motivi.
io amo l’ipocrisia e credo profondamente nel suo effetto evolutivo. la amo perchè è grazia all’ipocrisia che un nero spesso si può fare un viaggio sull’autobus in pace, mentre senza smette spesso di poterselo fare. Credo nel valore dell’azione culturale, ma quanti cazzo di decenni sono che parliamo del grande dovere dell’azione culturale? E che non la si fa? la si fa, ma va piano si arresta, è LENTA. Tempo di azioni culturale e il nero dell’autobus è nato cresciuto morto cibandosi un tot di insulti sull’autobus. Invece una bella legge che costringe all’ipocrisia fa uan roba immediata, e migliora la vita. A sua volta fa certamente un’azione culturale. Si potranno fare processi alle intenzioni, ma sti cavoli.
Punto due. Il 30 per cento minimo. Embè? C’è questa questione del sistema delle quote, ogni tanto arriva uno e dice: eh ma io voglio la qualità il premio al talento. E si presuppone quindi che la tale sottocategoria non ci ha l’attori bravi gli sceneggiatori etc. A me il sistema di quote non mi cambia una paglia: se una produzione è fascista cercherà fasci maschi, se c’è il sistema di quote cercherà fasce femmine. E’ impolitico disconoscere il fatto che democrazia è certo combattere il contenuto fascio della produzione ma mettere tutti nella condizione di produrre ed essere cazziati per quello che fanno.
Ivi comprese le cretine, le stupide, le reazionarie.
Baci 🙂
Se fosse come dici tu, Loredana, sottoscriverei in pieno.
Però mi pongo un dubbio: e se non fosse solo marketing, e magari quelle “quote” servissero a far smuovere un processo che, per vie “culturali”, metterebbe decenni e decenni ad avviarsi? Perché, mentre noi continuiamo (giustamente, eh!) ad invocare i famosi “mutamenti culturali”, essi avvengono ma in senso puntualmente contrario a quanto auspichiamo. E allora i casi son due: o ci stiamo sbagliando, o i primi a non promuovere quel mutamento siamo proprio noi.
Ben venga, allora, una dose di ipocrisia nel senso in cui dice Costanza (tanto mi pare che ci siamo già in mezzo pure noi, temo).