TOMMASO LABRANCA: UN RICORDO CAMPIONATO

E’ vero. Come prevedeva  Gianni Biondillo nel suo appassionato ricordo su Nazione Indiana, tutti parlano di Tommaso Labranca, scomparso improvvisamente ieri a poco più di cinquant’anni. Diceva anche, Biondillo: “In questi giorni ci sarà chi verserà lacrime di coccodrillo sulla sua bara. Gli stessi che avrebbero potuto dare spazio al suo genio ma l’avevano accantonato perché troppo “rompicoglioni”. Ci sputo sopra fin d’ora”.
Scrivere oggi di Tommaso Labranca significa rischiare anche quello sputo: dunque, lo faccio. Da molti anni non avevo contatti con lui, non sapevo cosa facesse, sapevo vagamente che era  incazzato con me, ma non ho mai saputo perché. Io non ero affatto incazzata con lui, anzi, continuavo e continuo a pensare che sia stato uno dei pensatori e scrittori più importanti degli ultimi vent’anni. Nulla conoscevo di quello che ora viene raccontato come il suo progressivo ritirarsi, dalla rete, dall’editoria, da un mondo dove era capitato con ironia beffarda e con intelligenza sorprendente.
Dunque, cosa sia successo non lo so. So quel che succede: la sua morte fa da catalizzatore dei rimpianti. Per lui, e soprattutto, temo, per un decennio che fu, e che è stato fervido di idee e desideri e possibilità. Quello in cui sulla scena – e nella mia vita, si parva licet – entravano Stefano Bartezzaghi, Luther Blissett, i cosiddetti “cannibali”, Aldo Nove, Giuseppe Genna, le case editrici che esploravano mondi sommersi, come quella di Alberto Castelvecchi che nel 1994, infatti, pubblicò “Andy Warhol era un coatto” (e pubblicò anche Aldo Nove e Luther Blissett). Un mondo che non aveva la superficialità grassoccia degli anni Ottanta e dove la parola ironia andava presa sul serio, e non aveva niente a che vedere con l’insulto  spacciato, successivamente, proprio per ironia.
Dunque, è di se stessi e di come si agiva in quel decennio che si parla ricordando Labranca, e certamente è ingiusto e altrettanto certamente è inevitabile, perché ogni morte stacca un pezzo di noi stessi. Anche quando non si è stati amici nell’accezione che almeno io attribuisco  all’amicizia: non eravamo amici, Tommaso Labranca e io, ma per un poco abbiamo condiviso un pezzetto di strada, io raccontando i suoi libri su Repubblica (e in una buffa rubrica televisiva che allora avevo su “L’altra edicola”, Rai2, e un poco in radio, ai tempi di Radio D’Annata), lui coinvolgendomi in un paio di iniziative da “giovane salmone”, come la letteratura “campionata” di “Labranca Remix”.
Bisogna ricordarlo, Labranca, non per necessità di cronaca, ma perché ha tracciato un sentiero dove molti si sarebbero incamminati, non necessariamente riconoscendoglielo.   Cominciò con il Trash. Quando Labranca ne raccontava l’emulazione fallita, non si limitava a elencare alcune squisite atrocità, ma ricordava che in alcuni casi quel pessimo gusto diventava rivolta anti-accademica, salvo venir poi rapidamente assorbito. Nel giro di due anni, dal 1994 di “Andy Warhol era un coatto”, al 1996, il Trash incappò nella solita ingordigia culturale che divulga, consuma e velocissimamente annienta un fenomeno di minoranza diventando Meta-Trash, ovvero la “spazzaturizzazione” di se stesso attraverso dibattiti, inchieste, classifiche da rotocalco. Fino al culminante “Sì, sono Trash” di Pippo Baudo a un dopofestival di Sanremo.
In mezzo – era il 1995 – Labranca rivolse a Roberto Calasso l’invito a lasciar perdere Milan Kundera e preoccuparsi di Fiorello. Avveniva ne “L’estasi del pecoreccio-Perche non possiamo non dirci brianzoli” (sempre Castelvecchi), un elogio del “barocco brianzolo” come categoria dello spirito, come grado superlativo di un’ estetica della volgarità, dal quale si può trarre anche un nuovo genere di estasi. E che impone il riconoscimento non solo del popolare, ma, appunto, del pecoreccio, come componente della nostra vita e anche della nostra cultura.
Non tutti gradivano. La disavventura del terzo libro di Labranca, “Chaltron Hescon”, è forse poco nota, o dimenticata. Dopo la partecipazione come autore e partner di Fabio Fazio ad “Anima mia”, Labranca lasciò Castelvecchi per Feltrinelli. Che però non pubblicò il saggio, o meglio Labranca non accettò l’invito a modificarne qualche passo che avrebbe potuto indisporre alcuni celebri personaggi citati. Non era affatto terribile, il libro: era invece l’analisi di una prassi consolidata,  che porta ancora oggi intellettuali, operatori della cultura e gente comune a riprodurre idee già pronte, senza la fatica di crearne di nuove e semmai peggiorando quelle originarie. Qualche esempio? La visione del film su Basquiat che induce la ragazza milanese a riproporre nella propria casa quelli che ritiene i simboli del genio e della sregolatezza: i cataloghi Electa, ma ben coperti dalla polvere, e un barattolo di maionese putrefatta in frigorifero. A Franco Battiato, per citare uno dei casi incriminati, toccava poi in sorte nel libro un’ esilarante analisi testuale di Prospettiva Nevskij, contestata frase per frase fino al verdetto finale: “Nemmeno Dori Ghezzi era riuscita a compiere una simile strage concettuale”. Finì che il libro uscì per Stile Libero, nel 1998.
In quello stesso anno, Labranca si concentrò sul doppio, usando un termine tecnico,  ridondanza, per illustrarne l’ inevitabilità. Ne parlammo, sempre su Repubblica, così: “La ridondanza è quel procedimento che prevede l’ installazione di due allarmi. Se se ne rompe uno, entra in funzione l’ altro. Va da sé che il macchinario che possiede questo sistema viene considerato di qualità superiore. Anche una società complessa ha bisogno di ridondanza: se le Spice Girls deludono il pubblico, ecco che entra in funzione il doppio, ovvero le All Saints. Ci si può vedere il bisogno di rassicurazione, il retaggio degli anni floridi del boom e l’ ansia, da sempre tutta italiana, di raddoppiare (due macchine, due televisori, due case), sia pure per l’ esigenza spicciola di essere e avere il doppio del vicino. Ma questo è già un livello avanzato di riflessione: il doppio nasce dal mercato. Se l’ originale funziona, se ne fa subito una copia sperando che funzioni allo stesso modo”.  Il Trash, del resto, funzionava sullo stesso meccanismo:  “il Trash ha bisogno di un doppio: perché nasce dall’ esigenza di emulare qualcuno o qualcosa che viene ritenuto superiore. è il living room che aspira ad essere in settanta metri quadri il salotto nobile e lo studio ovale. è il viaggio sulle tracce di Bruce Chatwin. è Little Tony che rifaceva Presley, è Segni che rifaceva Clinton. è, per arrivare più vicini a noi, Paolo Limiti che non solo utilizza il doppio della Monroe, ma copia il duetto virtuale di Nathalie Cole con il padre riproponendolo in chiave nostrana con Emanuela Villa. Insomma: è il bisogno di ripetere il già esistente”.
Ci ritornò in un saggio ancora, questa volta per Castelvecchi. Si chiamava “Neoproletariato” e conteneva un capitolo sulla “schiscetta”, che Italo Calvino chiamava pietanziera, ed era quel contenitore di metallo destinato a mantenere al caldo un pranzo prevalentemente operaio: ma, scriveva Labranca, non ne esistono più, “perchè i proletari che le usavano sono stati decimati”, e i neoproletari attribuiscono al cibo un significato diverso. Non più il significato di casa, cui la “schiscetta” rimandava, ma quello opposto di un lontano, possibilmente esotico, che attribuisca bellezza, ed anzi eleghanzia, alla propria esistenza. Se un erede della vecchia pietanziera esiste, somiglierà dunque alla vaschetta di alluminio dei take away cinesi o giapponesi, che consentono a chi li utilizza di fare il percorso inverso: anziché conservare in un luogo altro (la fabbrica) la familiarità del luogo domestico, portarsi un Altrove immaginato per lo più attraverso la televisione in una casa che si percepisce come estranea rispetto al mondo rappresentato.
Il cambiamento era in atto, e Labranca lo sintetizzò in un sillogismo: “I proletari sono comunisti. Mio padre era proletario. Mio padre era comunista. Io non voglio essere mio padre. Io non voglio essere proletario. Io non voglio essere comunista”. E dunque il pueblo unido diventa il pueblo bonito (dalla vera insegna di un vero centro abbronzatura) e non sogna tanto le tre I berlusconiane di Inglese Internet Impresa ma le più accattivanti tre F di Fashion Fitness Fiction, sostituendo il plusvalore marxiano con un meno astratto pluscool, difficile da definire quasi quanto il nobile termine di paragone: pluscool è la macchina ipercavallata, multiportierata, doverosamente fornita di accessori inutili e soprattutto ratealizzabile tasso zero, ma anche la spiaggia che si presume esclusiva, il muscolo sodo, il vestimento etnico. Elementi che non indicano l’ appartenenza ad una classe ma una trasversalità fra quel che resta delle classi: meta bramata, non un capovolgimento di condizione, ma l’ acquisizione di un apparente stato di benessere. Non intellighenzia, ma eleghanzia. Non sostanza, ma apparenza. Ovvero, il superfluo non rinunciabile e non necessariamente quantificabile in merce, quanto nell’ insieme di quel che si fa, si dice, si guarda, si indossa, si frequenta. Così, se il proletario avrebbe trascorso le notti d’ agosto in canottiera sul balcone, mangiando cocomero e conversando con il vicino, il neoproletario sta chiuso in casa con l’ aria condizionata al massimo, e a forza di pigiare sui watt accade che tutti i condizionatori saltino contemporaneamente  e la cosa degeneri in gigantesca e sudatissima rissa. E il dramma vero è questo: il neoproletariato non è più massa, ma una somma di individualismi restii a scambi con l’ esterno. Perché è pur vero che il sistema industriale produce oggetti di massa: ma, come ricordava Labranca, “li riveste di sogni individualizzanti”.
Accanto alle rovine del popolo, i disastri degli intellettuali. I quali, lungi dal riproporre la passione pedagogica che fu dei predecessori gramsciani, si rivelano divisi fra il disgusto istintivo e la più redditizia attività che Labranca definiva “ipnomediatica”, ovvero di guida suprema al pluscool dalle pagine di quotidiani e dai salotti televisivi. Oppure, denunciava, smettono semplicemente di ricordare, come un tempo, che la differenza tra operai e padroni sta nel numero di parole conosciute, ma ammoniscono a snobbare i marchi e disertare i McDonald’ s in favore del lardo di Colonnata. Senza capire, probabilmente, che anche il neoproletariato disdegna l’ hamburger per andare in cerca di sushi, perché ha letto che fa tendenza, e perché è molto più facile lottare per il totano crudo piuttosto che trovare casa o un contratto di lavoro che non sia ai limiti della legalità. Bene che vada, gli intellettuali ipnomediatici dedicano al pueblo bonito un piccolo libro trasudante odio e amore: è quello che fece Labranca, seguendo i passi dei neoproletari negli spot delle televisioni locali dove nasceva una nuova e terribile estetica del bagno, fra i tristi scaffali degli hard discount dove scelgono i cibi più a buon mercato, ma solo per pagare le rate della lussuosissima automobile maxicilindrata cinque valvole, turbocompressore e cerchi in alluminio fucinato. Li seguì, indomito, fino alla fine, mentre sfogliano il (vero) catalogo delle onoranze funebri dove viene elencata la suprema eleghanzia dei teli di velluto per la camera ardente e della bara modello “Cantico delle creature”, con uccelletti intagliati e rami in fiore. Degna, è scritto nel catalogo, di ricevere l’ applauso commosso all’ uscita dalla chiesa: proprio come in televisione.
Era il 2002. Aveva visto lontanissimo.
N.B. In questo post ho “campionato” alcuni degli articoli scritti su Tommaso Labranca per Repubblica, volutamente. Quello sul Neoproletariato è riportato quasi integralmente. E, sì, mi dispiace molto che Tommaso Labranca non ci sia più.

7 pensieri su “TOMMASO LABRANCA: UN RICORDO CAMPIONATO

  1. E pensare che per me Tommaso Labranca era solo il simpatico coautore di Anima mia, che citava a memoria fumetti e film come se piovesse. Che scemo (io)!

  2. Sincera. A volte gli sputi vanno rischiati. Ma è nelle cose della vita incontrarsi camminare uno fianco all’altro e poi, senza motivo, perdersi. Una grazia quando ci si rincontra. Non sempre ci si rincontra e non è una colpa. Gli sputi non sono per lei Loredana. Un caro saluto e bentornata.

  3. Lungi da me dallo sputarti, Loredana, non eri di certo tu l’oggetto della mia invettiva. Tommaso aveva un carattere difficile, e sapeva litigare per un nonnulla. Ma sempre per quello che in quel momento “rappresentava” la persona. Mai la persona in sé. Infatti poi sapeva anche fare la pace. Era, de visu, d’una gentilezza ed educazione d’altri tempi, nobile.
    Aggiungo, qui, che dalle informazioni che ho che è morto d’infarto. Giusto per evitare derive dietrologiche che già vedo in rete. Ma non sarebbe scorretto dire “di crepacuore”. Le sue ultime, bellissime cose non le conosceva praticamente nessuno. Se le autopubblicava.
    Qualche mese fa invitò tutti i suoi lodatori della rete ad andare ad un pomeriggio organizzato in Bovisa (“ora ci arriva la metropolitana”, diceva, “non avete scuse”) dove Avrebbe esposto la sua ultima produzione. Voleva saltare la distribuzione e vendere direttamente ai suoi “ammiratori virtuali”. Non ci andò praticamente nessuno. Ognuno accampò scuse patetiche (dopo aver assicurato che non avrebbero saltato l’appuntamento per nulla al mondo).
    Ecco, questa modalità internettiana, social, dove basta mettere un like per sentirsi l’animo in pace non la sopportava più.
    Si sentiva uno sconfitto. (in un incontro svizzero gli dissi di rammentare quello che ci ha insegnato Beckett: fallire, fallire meglio. Sorrise e mi chiese un pezzo per la sua rivista)
    Fece sparire tutte le cose sue in rete (alcune bellissime), chiuse la sua pag di FB. Scriveva a pochi intimi. Ho avuto al fortuna d’essere fra quelli.
    Il suo lavoro per Tipografia Helvetica, il bimestrale che pubblicava in Ticino, era davvero bello e interessante. Gli unici abbonati della rivista erano svizzeri. In Italia non si abbonò nessuno.
    Tommaso, nel resto del mondo, avrebbe avuto come minimo una cattedra all’Università. Qui da noi era quello di Anima Mia. Tutto ciò è molto triste.
    Leggete il suo ultimo libro, Vraghinaroda. Ci sono parole e concetti che useremo tutti nei prossimi anni.
    Domani, per chi vuole, ci sarà il saluto alla salma. In piazza Mistral 9, alle 15,00. Zona Rogoredo (coerentemente col personaggio).
    E grazie per il bel ricordo.
    p.s. Tommaso odiava quel titolo, “Andy Warhol era un coatto”. Glielo aveva messo l’editore senza consultarlo. Lui, da buon brianzolo, asseriva che AW fosse un tamarro! 😉

    1. Grazie a te, Gianni. Vedi come ci si perde? Io del suo bimestrale nulla sapevo, colpevolmente, e tanto meno di Vraghinaroda, che andrò a procurarmi in qualsiasi modo. Sulla modalità internettiana, aveva mille volte, ancora una volta, ragione da vendere.

  4. In questi giorni, delle opere di Labranca si ricordano essenzialmente le prime e l’ultima, cosa che dice molto di quanto sia stato poco valorizzato (diciamo così) negli anni “di mezzo”. Tra il 2008 e il 2011, ad esempio, ha pubblicato per la fu Excelsior 1881 dei libri di grande bellezza e profondità (78.08, Astrakhan, Haiducii). Peccato…

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