Sulla lettura, sulla grazia, sul mettere all’indice. Azar Nafisi da La repubblica dell’immaginazione.
“Sono giunta alla conclusione che, indipendentemente da dove viviamo e dal sistema che ci governa, gli istinti e i bisogni umani sono universali e i diritti fondamentali sono sempre validi. Siamo umani, e per questo abbiamo bisogno di narrare e leggere storie, le nostre e quelle degli altri. Abbiamo bisogno di rinnovare continuamente la nostra percezione del mondo ed essere pronti a cambiare noi stessi e l’ambiente che ci circonda. Sentiamo la necessità di raccontare quello che succede a noi e agli altri quando combattiamo per salvarci dalla disperazione, per ricordare a noi stessi che i tiranni non possono confiscarci le cose alle quali teniamo di più. I fanatici hanno molte facce; possono lanciare anatemi, uccidere e mutilare nel nome del progresso, della Libertà o di Dio. Ma non possono rubare i nostri ideali. Non possono portarci via la nostra intrinseca umanità. «Lo sforzo per liberarsi e autodeterminarsi inteso come un dovere elementare, insieme a quello di liberare gli altri, anzi il non potersi liberare da soli, il liberarsi liberando; la fedeltà a un impegno e la purezza di cuore come virtù basilari che portano alla salvezza e al trionfo» scrisse Calvino. E poi aggiunse una semplice frase che per me riassume tutto: «La bellezza come segno di grazia». In questi concetti – nell’insistenza puramente umana sulla bellezza, negli strati di dettagli che ci dicono chi siamo, di che cosa abbiamo paura, che cosa vogliamo – prospera l’immaginazione.
Spesso mi sono chiesta se esista una correlazione tra la crescente mancanza di rispetto per le idee e l’immaginazione e l’aumento della disparità fra ricchi e poveri negli Stati Uniti, riflesso non solo dall’abisso fra i salari degli amministratori delegati e quelli dei loro dipendenti, ma anche dall’alto prezzo dell’istruzione: c’è un incredibile divario fra scuole pubbliche e private, che rende ancor più subdoli e insinceri tutti i bei discorsi dei nostri governanti, i quali, in ogni caso, mandano i figli nelle scuole private e godono di tutti i privilegi e vantaggi della loro posizione di servitori del popolo. Chi si può permettere l’istruzione privata non deve temere che ai suoi figli sia negato lo studio dell’arte, della musica e della letteratura; è più protetto – per ora – dalla dottrina dell’efficienza, che ha cambiato radicalmente il volto della scuola pubblica.
Nei paesi come l’Iran, l’immaginazione è minacciata da un regime che vuole controllare in toto la vita dei cittadini. Per loro, la resistenza allo Stato è un atto non solo politico, ma esistenziale. Cosa dire, invece, delle democrazie, dove questa tirannia così scoperta non esiste? Nei paesi totalitari, la brutalità e la repressione si mostrano nelle loro forme più lampanti: torture, leggi arbitrarie, esecuzioni. Per ironia della sorte, in queste società il valore dell’immaginazione – la sua minaccia allo Stato e la sua importanza per la gente – è assai ovvio: è uno dei motivi per i quali nelle società repressive le persone corrono grossi rischi per leggere libri messi all’indice, guardare film messi all’indice e ascoltare musica messa all’indice. Per loro la letteratura non è semplicemente un percorso culturale o una tappa obbligata della formazione; è una necessità di base, un atto per riappropriarsi di un’identità confiscata dallo Stato. Anche se l’istruzione è il primo e fondamentale passo verso la cittadinanza attiva necessaria a una democrazia fiorente, da sola non basta, perché è semplicemente un mezzo per raggiungere un fine. Il modo in cui impariamo le cose conta quanto le cose che impariamo. Indipendentemente dalle loro tendenze ideologiche, le autocrazie come quelle che devastano l’Iran, la Cina, lo Zimbabwe, l’Arabia Saudita e la Corea del Nord temono – a ragion veduta – le conseguenze dell’istruzione, e cioè la conoscenza, il morso al frutto proibito, con la promessa di un diverso tipo di potere e di libertà. Ecco perché i talebani distruggono le scuole e vogliono uccidere le ragazzine come Malala, così coraggiose da esprimere in pubblico il loro ardente desiderio di istruzione e libertà. Con una memorabile battuta, il poeta russo Iosif Brodskij disse che Lenin, Stalin e Mao erano tutti persone istruite: Stalin aveva diretto un giornale e Mao scriveva addirittura «versi». Il problema è che «l’elenco delle loro vittime era infinitamente più lungo dell’elenco delle loro letture». C’è una ragione, se gli Stati totalitari considerano pericolose e sovversive le cosiddette discipline umanistiche e cercano di eliminarle a ogni costo. Sanno quali sono i pericoli dell’indagine libera e autentica. La loro paura delle società democratiche e l’ostilità con cui le trattano non dipendono tanto dal potere militare quanto dalla cultura e da tutti i problemi che questa può causare. Paradossalmente, riconoscono il valore di ciò che noi scartiamo e svalutiamo sempre di più. Nelle democrazie, le arti non minacciano lo Stato, né suscitano lo stesso senso di bisogno. Si può essere irretiti fino a una paralisi della coscienza, una pigrizia dell’intelletto. «Il vero pericolo per uno scrittore non è tanto la possibilità(non di rado piuttosto concreta) di una persecuzione da parte dello Stato, quanto la possibilità di farsi ipnotizzare dalla fisionomia dello Stato, una fisionomia che può essere mostruosa o cambiare in meglio, ma che è sempre provvisoria»: ancora Brodskij! Questo vale sia per le democrazie sia per le società totalitarie. Tutti gli Stati – anche quelli totalitari – offrono lusinghe e tentazioni. Se cediamo, il prezzo che paghiamo è il conformismo: ci abbandoniamo ai dettami del gruppo. La letteratura è unantidoto, un memento sul potere della scelta individuale. Al centro di ogni romanzo c’è una scelta compiuta da almeno uno dei protagonisti, la quale ricorda al lettore che anche lui può scegliere di essere indipendente, di opporsi alle cose che i genitori, la società o lo Stato gli dicono di fare, e seguire il debole ma essenziale palpito del suo cuore. Brodskij, Nabokov, Czesław Miłosz e Hannah Arendt – tutti rifugiati in America (come Einstein, del resto) – resistettero alle dittature dei loro paesi e respinsero le tentazioni vuote delle democrazie occidentali per un unico motivo: sapevano che negare e tradire la loro identità profonda non voleva dire solo arrendersi alla volontà del tiranno, ma anche, in un certo senso, infliggersi la morte. Ci si trasforma nel dente di un’enorme ruota invisibile che non si può controllare – come in Tempi moderni di Charlie Chaplin, ma senza la comicità. Questa identità profonda è ciò che permette ai singoli individui di diventare cittadini responsabili del loro paese e del mondo, di collegare il loro interesse a quello della società, di esserne parte attiva e informata. Per riuscirci, hanno bisogno di conoscere, fermarsi, pensare, interrogarsi. È una qualità che ritroviamo in moltissimi eroi del romanzo americano, da Huckleberry Finn a Mick Kelly di Il cuore è un cacciatore solitario. Come possiamo proteggerci dalla cultura della manipolazione, dove sapori e aromi sono ricreati chimicamente in laboratorio e spacciati per cibo naturale, dove la religione viene commercializzata, trasmessa in televisione, twittata, e la pubblicità ci influenza a tal punto da imporci non solo cosa mangiare, indossare, leggere e desiderare, ma anche cosa e come sognare? Abbiamo bisogno della bellezza incontaminata della verità che viene rivelata dalla narrativa, dalla poesia, dalla musica, dalle arti; abbiamo bisogno di recuperare il terzo occhio dell’immaginazione. Se i miei studenti iraniani e milioni di altre anime coraggiose come Malala e Ramin hanno rischiato la vita per difendere la loro integrità individuale, il loro accesso al libero pensiero e alla libera istruzione, che cosa siamo pronti a rischiare noi per difendere il nostro accesso a questa Repubblica dell’immaginazione? Dire che solo nei regimi repressivi c’è bisogno dell’arte e dell’immaginazione equivale a svilire la vita stessa. La necessità di scrivere o il desiderio di leggere non nascono dalla sofferenza e dalla brutalità. Se crediamo nelle prime tre parole della Costituzione – «Noi, il Popolo» –, capiamo che la difesa del diritto all’immaginazione e al libero pensiero non tocca solo agli scrittori e agli editori, ma anche ai lettori. Ripenso alla frase di Nabokov secondo cui «i lettori nascono liberi e liberi devono rimanere». Abbiamo imparato a protestare quando gli scrittori vengono incarcerati o quando i loro libri sono censurati e messi all’indice. Ma che ne è dei lettori? Chi difenderà noi? Cosa succede se uno scrittore pubblica un libro e non c’è nessuno che lo possa leggere? «Leggere non mi è mai piaciuto tanto, finché non ho avuto paura di non poterlo più fare. Non si ama respirare». Così dice Scout nel Buio oltre la siepe, dando voce ai sentimenti di milioni di persone. Noi dobbiamo leggere, e dobbiamo continuare a leggere i grandi libri sovversivi: i nostri e quelli degli altri. Questo diritto può essere garantito solo dall’impegno attivo di ciascuno di noi, cittadini lettori.