Capita che nei talk show politici si riesca a citare un libro. Capita che si riescano a usare parole diverse da quelle abituali, e quando avviene ci si stupisce come se ci fossimo talmente abituati a ragionare di correnti e faide e strategie e spaccature e tutto quel che ne consegue da perdere di vista, semplicemente, la strada. Il “come se” è in effetti superfluo: è così.
Capita che ci sia qualcuno che, come ha fatto ieri Michela Murgia a Ballarò, dica quel che in molti pensiamo: basta parlare di Berlusconi. Basta davvero: perché, ed è sfinente ripeterlo, Berlusconi non è la causa ma l’effetto di un lungo innamoramento per un tempo che sembrava scintillare di promesse e che in realtà ci ha inchiodato a terra, togliendoci la cosa più importante, che è la capacità di progettare, e di pensare a un futuro collettivo. Michela, ieri, ha detto fra l’altro: “In un romanzo ,quando rimpolpi molto un personaggio, vuol dire che non c’è trama. Ho la sensazione che in questo momento l’Italia sia un paese senza trama”. E’ così. Incatenata al passaggio momentaneo, alla frase a effetto, l’Italia, e dunque noi, procede per tentativi e abbellimenti, senza sapere come proseguire.
Dicevo dunque che Michela ha citato un libro. Si chiama La nuova geografia del lavoro, lo ha scritto Enrico Moretti, economista italiano, insegna all’università di Berkeley, Stati Uniti, scrive per New York Times e Wall Street Journal. Proprio per discutere le tesi di questo saggio è stato convocato alla Casa Bianca daBarack Obama, fra l’altro. Ma cosa sostiene Moretti? In pochissime parole, che la nuova economia si basa sul sapere. Sapere. Quello in cui l’Italia non investe.
Ad aprile Giovanni Molaschi ha intervistato Moretti per Il fatto. Vi riporto un brano:
Quale fattore disegna, più di altri, la nuova geografia del lavoro?
L’istruzione media di una città. Non è sempre stato così. Il capitale fisico, tra il 1950 e il 1980, ha innescato una crescita in città come Detroit (luogo simbolo delle attività statunitensi di Marchionnne, ndr) che oggi non hanno i parametri richiesti dal mercato del lavoro. Il capitale umano determina il successo di un’area.
Vi invito, ora, a leggere il manifesto sulla cultura di Sardegna possibile. La cultura è lo strumento principale per ricostruire la coesione sociale, si legge al primo punto. Esattamente quella cultura che è stata dileggiata, schernita, considerata roba da noiosissimi club intellettualoidi negli ultimi trent’anni.
Leggetelo, leggete il libro di Moretti e riflettete. Siete liberissimi di considerare questo post un endorsement. Avete ragione. Lo è. Ma i motivi non sono sono nell’amicizia, nell’affetto e nella stima per Michela. Stanno nella necessità di tornare a sperare, a progettare, a fare, finalmente, politica.
A complemento del libro di Moretti, che andrò ad accattarmi oggi stesso, consiglio a chi volesse toccare con mano come questo paese è riuscito, nel giro di cinque decenni, a dilapidare un capitale produttivo, umano, intellettuale e industriale inestimabile, “La scomparsa dell’Italia industriale”, di Luciano Gallino. Gallino è un sociologo del lavoro, il libro è impostato come una narrazione e non richiede competenze di economia. Si legge in due ore ed è la necessaria premessa, credo, per “apprezzare” (si fa per dire) fino in fondo l’entità del disastro che questo paese si è autoinflitto.
Segnalo anche l’idea di Umberto Sulpasso di un calcolo del Prodotto Nazionale Sapere, spiegata nel suo libro Darwinomics.
guardando gli show politici ormai la sensazione è che il sistema politico sia imploso e nessuno di quelli che sono stati responsabili in solido,ognuno con un contributo personale,abbia voglia di assumersi responsabilità.Infatti osservo la tv come se fosse un’acquario(ma colgo ugualmente i segnali di vita)
http://www.youtube.com/watch?v=JaufZqgH25w
a me è piaciuto “pomeriggio noioso di una domenica di pioggia guardando vecchie repliche alla TV”… soprattutto il suo “Che me ne frega”, tant’è che stasera me lo riguardo in streaming
E come si fa a riuscire a raccontare una storia diversa rispetto al nulla berlusconiano corrente una volta che si fa uso dello strumento della tv?
Non sto provocando, lo sto chiedendo davvero.
Mi riferisco, in parte, alla bella intervista a Foster Wallace menzionata qualche giorno fa. A un certo punto vi si dice:
“…se ti vuoi impegnare contro quest’atmosfera, se vuoi confrontartici ma allo stesso tempo vuoi prendertene gioco, come potrai farlo senza usare le tecniche che la TV ha già preso dalla passata letteratura ribelle e che sta attualmente utilizzando per vendere furgoncini e panini? Un problema davvero interessante.”
Appunto: un problema. Il rischio è quello dell’elitismo: i soliti intellettuali scollati e autoreferenziali etc… Sentirsi rispondere che “…io col furgoncino e i panini ci lavoro!”
Poi, però, mediaticamente chi gestisce e influisce e spadroneggia sul versante mainstream non si fa problemi a sparare a palle incatenate sull’immaginario utilizzando (senza remore) tutti gli strumenti più insinuanti che l’uso retorico di materiali narrativi mette a disposizione in TV.
C’è la rete, ma on-line o off-line i rapporti di forza rimangono gli stessi. C’è la politica. Ma come fare a non tenere conto del “problema davvero interessante”?
Condivido buona parte di ciò che è stato scritto, ma manca una parte della questione ed è quella relativa al fatto che sì si critica il degrado in cui è stata spinta l’Italia, ma il progetto politico della Murgia e di Progres non comprende l’Italia. La Sardegna è vista come una nazione a parte ed il progetto di lunga distanza è quello di conquistare l’indipendenza. Di questo non parlate, come mai?
Spero non si pretenda che la Sardegna, oltre a salvare se stessa, salvi anche l’italia. 🙂
Battute a parte, se è vero che una componente di Sardegna Possibile è dichiaratamente indipendentista, è anche vero che Sardegna Possibile è un progetto di governo per l’oggi, fondato su valori e obiettivi condivisi da soggetti diversi, ma tutti coscienti che sia necessaria una radicale revisione deli orizzonti politici sardi, dei paradigmi economici e sociali, delle modalità di rappresentanza politica, ecc. ecc. Non il nuovo per il nuovo, naturalmente. L’impianto ideale è sancito nella dichiarazione d’intenti di Sardegna Possibile e il manifesto culturale a cui Loredana fa riferimento è una chiara dimostrazione di quel che si intende fare e di come lo si intende realizzare. Potrebbe essere un esempio utile anche per l’Italia, se qualcuno prendesse spunto. Di sicuro non c’è alcuna contrapposizione ostile, né alcuna forma di egoismo isolazionista, in questo percorso.
Poi sulla questione dell’autodeterminazione dei sardi si può sempre discutere. Anzi sarebbe anche il caso che in Italia il problema si ponesse, laicamente e non nei soliti termini centralisti e nazionalisti in cui viene presentato di solito, specie a sinistra (con lo spauracchio leghista sventolato minacciosamente ad ogni minimo accenno di questioni identitarie o di critiche verso l’assetto storico dello stato italiano unitario). Ma credo non sia questa la sede opportuna.
Omar, perché no? Giusto ieri spiegavo a un amico che non bisogna temere il discorso sull’autodeterminazione 🙂
Non è un discorso facilmente riassumibile in poche battute. Bisognerebbe far riferimento a questioni storiche, culturali, sociali ed economiche complesse, per di più fuori dalle cornici concettuali usualmente applicate alla Sardegna.
In generale in Italia vige un’avversione molto forte verso le differenze culturali e le minoranze storiche. È un elemento strutturale della costruzione dell’Italia come stato unitario, variamente declinata poi nei diversi ambiti politici e a seconda dei periodi.
Il problema, per la Sardegna, si può sintetizzare nell’irriducibile incompatibilità delle necessità strategiche dell’isola rispetto a quelle dell’Italia. I fattori geografici e storici giocano un ruolo determinante e guarda caso sono precisamente quelli che si è riusciti con un certo successo a rimuovere. Oggi la Sardegna è considerata e descritta pressoché sempre come una “regione” italiana meridionale ed è un oggetto storico pressoché sconosciuto. È molto presente invece una certa mitologia, che è stata alimentata negli ultimi duecento anni e negli ultimi centocinquanta in particolare e fatta interiorizzare, attraverso processi di tipo egemonico, ai sardi stessi oltre che agli italiani (provate a pensare alla Sardegna; vi verranno in mente alcune parole chiave e alcune immagini stereotipate: ecco parlo proprio di quello). Così si è costruito il nostro mito identitario (un classico caso di mito tecnicizzato), che naturalmente – come tutti i miti tecnicizzati – risponde perfettamente all’assetto socio-economico e culturale dominante, lo giustifica e lo canonizza.
Il problema dell’appartenenza all’Italia, per la Sardegna, ha i contorni di una questione molto concreta, non certo ideologica o nazionalista. È un problema di estraneità conclamata al contesto geografico, storico, politico, culturale ed anche produttivo in cui l’isola è inserita praticamente a forza dalla metà dell’Ottocento; estraneità che però si è preferito esorcizzare (soprattutto da parte della classe dominante sarda) in termini di rivendicazione di “specialità regionale” e di “autonomia”.
Da duecento anni la classe dominante sarda ha scelto di farsi intermediaria tra l’isola e il centro del potere esterno (prima il governo sabaudo, poi quello italiano unitario) e di godere così del doppio vantaggio di gestire lo status quo in conto terzi (con relativi privilegi) ma senza la preoccupazione di dover governare realmente. Mutatis mutandis questo modello ha funzionato ininterrottamente (salvo qualche scossone presto riassorbito) dalla fine del 1700 (all’epoca della Rivoluzione Sarda) fino ad oggi.
Questo significa che in Sardegna ogni discorso di emancipazione sociale e di sostituzione dei modelli dominanti non può prescindere dal discorso dell’autodeterminazione. L’errore storico della sinistra sarda nel corso degli ultimi settant’anni è stato quello di non riconoscere tale nodo strutturale e di adagiarsi su una fedeltà centralista persino imbarazzante (il PCI fu il più strenuo oppositore del riconoscimento ufficiale della lingua sarda, per esempio), avallando e anzi promuovendo la stagione dell’industrializzazione dissennata dell’isola (perché, come mi è stato detto anche di recente, bisognava “cambiare la testa dei sardi”), disconoscendo e mistificando ogni pulsione di riappropriazione storica e culturale e ogni tentativo di far valere le risorse del territorio contro i progetti calati dall’alto e dall’esterno, con la complicità partecipe del sistema accademico e intellettuale nostrano (fatte salve pochissime eccezioni). Basterebbe andare a vedere cosa sono e che prassi attuano i sindacati confederali italiani in Sardegna, per farsi un’idea almeno generica della nostra condizione storica.
Ma questo è solo un sunto parziale, una mera esposizione esemplificativa, senza alcuna pretesa di esaustività. Le cose da spiegare sarebbero troppe e ho approfittato decisamente oltre ogni buona creanza di questo spazio.
Chi volesse approfondire il tema potrà trovare molto materiale in Rete e per i più appassionati ci sarà la possibilità anche di seguire la campagna elettorale ormai avviata (magari non tramite i mass media mainstream): se ne vedranno delle belle.
A me questo largo strutturarsi di un “discorso” di riappropriazione dal basso delle istanze del territorio interessa moltissimo. Per dire: la vicenda di Arborea, nei suoi universali, descrive un modello che può essere applicato alla maggior parte dei casi di egemonia esercitata senza tanti complimenti sui territori italiani. Gli esempi, innumerevoli, sono notissimi: Democratic Party anyone? La chiave locale è determinante. Sull’oggetto Sardegna confesso la mia ignoranza, magari Omar potrebbe essere tanto cortese da indicare qualche libro? Visto che c’è… 🙂
Escludendo le autocitazioni, che non sono mai eleganti ( 🙂 ), qualche suggestione e qualche elemento di riflessione lo offrono sicuramente:
MICHELA MURGIA, Viaggio in Sardegna.Undici percorsi nell’isola che non si vede, Einaudi, 2008
BACHISIO BANDINU, Pro s’indipendentzia, Il Maestrale, 2010
CARLO PORCEDDA – MADDALENA BRUNETTI, Lo sa il vento. Il male invisibile della Sardegna, Ed. Ambiente, 2011
CLAUDIA SARRITZU, La Sardegna è un’altra cosa. Viaggio giornalistico nell’isola della crisi, Ethos Edizioni, 2013
CELESTINO TABASSO, Forse non fa. Dieci errori da evitare a Cagliari, Caracò editore, 2013
Libri abbastanza diversi uno dall’altro, ma tutti contemporanei, caratterizzati da uno sguardo decisamente emancipato.
Sicuramente ne dimentico qualcuno, ma questi già bastano per un primo approccio su vari registri (da quello narrativo-evocativo, a quello giornalistico, a quello umoristico). Si trovano tutti facilmente anche online.
Non elenco testi propriamente storici o altri saggi di natura accademica, ma si trovano spesso nelle bibliografie dei libri citati.
In Rete – ribadisco – c’è moltissimo materiale, sia riguardo allo scenario politico isolano, sia relativamente agli aspetti storici, culturali ed economici.
Sono d’accordo su Arborea e la mobilitazione anti-trivelle. Senz’altro è un laboratorio che può servire da esempio al di là della sua valenza territoriale diretta. Come anche altre soluzioni che stanno emergendo in questi anni in Sardegna, su vari fronti (penso a Sardex o a Lìberos, per fare due esempi clamorosi, su cui le informazioni abbondano e sono di facile reperimento). Per questo la lettura che dà Loredana del progetto Sardegna Possibile è centrata (al di là dell’amicizia e dei rapporti umani personali). Poi, chiaro, lo dice uno che è parte in causa. 😉
Grazie Omar, ho archiviato. Molto bello.