Sessantatre anni fa, sono nata anche io in una tempesta, come raccontava mia madre: una tempesta di pioggia e vento che si abbatté su Roma. Bene, non ho draghi a mia disposizione, ma ho un regalo da fare a voi che leggete. Come forse sapete, lo scrittore Ahmet Altan era stato scarcerato il 4 novembre e nuovamente arrestato e nuovamente nelle prigioni turche il 12 novembre. Oggi, a monito e speranza, pubblico qui quello che Altan scrisse nel 2017. Perché la magia di cui parla sia più potente di tutto.
«Un oggetto in movimento non è né dove è, né dove non è», afferma Zenone nel suo famoso paradosso. Fin dalla mia giovinezza ho creduto che questo paradosso sia più adatto alla letteratura o, anzi, agli scrittori, che alla fisica. Scrivo queste parole dalla cella di una prigione. Aggiungete la frase: «Scrivo queste parole dalla cella di una prigione» a qualsiasi narrazione e sarà come aggiungere una vitalità inquieta, una voce spaventosa proveniente da un mondo oscuro e misterioso, la coraggiosa posizione di un oppresso che resiste e un malcelato appello alla grazia. È una frase pericolosa che può essere usata per sfruttare i sentimenti delle persone. E gli scrittori non sempre si astengono dall’usare le frasi in un modo utile ai loro interessi quando è in gioco la possibilità di toccare i sentimenti della gente. Perfino capire la loro intenzione può bastare al lettore per provare compassione nei confronti di chi ha scritto quella frase. Ma aspettate. Prima che iniziate a commiserarmi, ascoltate quello che vi dirò.
Sì, sono detenuto in una prigione di alta sicurezza in mezzo al nulla. Sì, mi trovo in una cella dove la porta viene aperta e chiusa con uno sferragliare di chiavi. Sì, ricevo i miei pasti attraverso un buco in mezzo alla porta. Sì, anche la parte superiore del piccolo cortile lastricato dove cammino su e giù è chiusa da gabbie d’acciaio. Sì, non mi è permesso di vedere nessuno a parte il mio avvocato e i miei figli. Sì, mi è vietato perfino inviare una lettera di due righe ai miei cari. Sì, ogni volta che devo andare in ospedale tirano fuori delle manette da un mucchio di ferri e me le mettono ai polsi. Sì, ogni volta che mi portano fuori dalla mia cella gridano «alza le braccia, togliti le scarpe» e me lo urlano in faccia.
Tutto questo è vero, ma non è l’intera verità. Nelle mattine d’estate, quando i primi raggi di sole passano attraverso le nude finestre a sbarre e colpiscono il mio cuscino come delle lance scintillanti, sento i canti giocosi degli uccelli di passaggio che hanno fatto il loro nido sotto le grondaie del cortile e gli strani scricchiolii dei detenuti che, passeggiando negli altri cortili, schiacciano le bottiglie d’acqua vuote sotto i loro piedi.
Vivo con la sensazione di abitare ancora in quella casa con giardino dove ho trascorso la mia infanzia o, per qualche motivo e non so spiegarmi perché, in uno di quegli alberghi delle vivaci strade francesi del film Irma la Dolce.
Quando mi sveglio con la pioggia autunnale che colpisce le sbarre della finestra, con la furia dei venti del nord, comincio la giornata sulle rive del Danubio in un albergo con delle torce sulla facciata che vengono accese ogni notte.
Quando mi sveglio con il sussurro della neve che si accumula tra le sbarre della finestra d’inverno, inizio la giornata in quella dacia con una finestra sul davanti dove si rifugiò il dottor Zivago.
Finora, non mi sono mai svegliato in prigione – nemmeno una volta. Di notte, le mie avventure sono ancora più cariche di azione. Giro tra le isole della Thailandia, gli alberghi di Londra, le strade di Amsterdam, i labirinti segreti di Parigi, i ristoranti sul lungomare di Istanbul, i piccoli parchi nascosti tra le strade di New York, i fiordi della Norvegia, le piccole città dell’Alaska con le loro strade sepolte dalla neve.
Mi potete incontrare lungo i fiumi dell’Amazzonia, sulle rive del Messico, nelle savane africane. Parlo tutto il giorno con persone che nessuno vede o sente, persone che non esistono e non esisteranno fino al giorno in cui le menzionerò. Le ascolto mentre parlano tra di loro. Vivo i loro amori, le loro avventure, le loro speranze, le loro preoccupazioni e le loro gioie. A volte rido mentre cammino in cortile, perché mi capita di sentire le loro conversazioni piuttosto divertenti. Poiché non voglio metterli sulla carta in prigione, incido tutto ciò in qualche angolo della mia mente con l’inchiostro scuro della memoria.
So che sarò un uomo schizofrenico finché queste persone rimarranno nella mia mente. So anche che sono uno scrittore quando queste persone si ritrovano in certe frasi sulle pagine di un libro. Mi piace fare avanti e indietro tra schizofrenia e scrittura. Mi libro come fumo e lascio la prigione con le persone che esistono nella mia mente. Forse hanno il potere di imprigionarmi, ma nessuno ha il potere di tenermi in prigione.
Sono uno scrittore. Non sono né dove sono né dove non sono. Ovunque mi rinchiudano, viaggerò per il mondo con le ali della mia mente infinita. Inoltre, ho amici in tutto il mondo che mi aiutano a viaggiare, molti dei quali non ho mai conosciuto. Ogni occhio che legge quello che ho scritto, ogni voce che ripete il mio nome, mi tiene per mano come una piccola nuvola e mi fa volare sulle pianure, le sorgenti, le foreste, i mari, le città e le loro strade.
Mi ospitano silenziosamente nelle loro case, nelle loro sale, nelle loro stanze. Viaggio in tutto il mondo nella cella di una prigione.
Come avrete capito, ho un’arroganza divina, un’arroganza che spesso non è riconosciuta ma che è propria degli scrittori ed è stata tramandata di generazione in generazione per migliaia di anni. Ho una fiducia in me stesso che cresce come una perla dentro il duro guscio della letteratura. Ho un’immunità protetta dall’armatura di acciaio dei miei libri. Scrivo nella cella di una prigione. Ma non sono in prigione.
Sono uno scrittore. Non sono né dove sono né dove non sono. Mi si può imprigionare, ma non tenermi in prigione. Perché, come tutti gli scrittori, possiedo una magia. So attraversare i muri con facilità.
Traduzione di Luis E. Moriones
Dalla Repubblica del 27 settembre 2017.