Mi auguro che il Feminist Blog Camp che si apre domani a Torino (e purtroppo non riuscirò a esserci, ma mando un pensiero partecipe a tutte e tutti) trovi il modo di parlare anche di rappresentazione del materno in un paese che non supporta il materno, ma lo glorifica in un’immagine non scalfibile.
Penso che l’impegno delle donne contro l’uso del corpo femminile in pubblicità e in televisione dovrebbe rivolgersi, ora, anche alla decostruzione di quelle immagini di madri angelicate quanto affannate, ma sempre adoranti, mai un dubbio, mai una ribellione, che si affacciano da ogni medium.
Ieri mi scriveva una lettrice: “Sbaglio o da un po’ di tempo sono aumentate le pubblicità che fanno leva sull’amore materno per vendere? “Mamma sei un angelo” per il lievito per torte, il portale mammeattente.it che mi manda una mail per ricordarmi di comprare lysoform per essere una mamma-modello (quelle che non lo comprano sono reprobe e sporcaccione) e poi sottilette, merendine… un mondo appiccicoso e vagamente ansiogeno dove trionfa la mammina giovane e saggia che sa cosa è meglio”. Parallelamente, corre il filone della mamma stremata da “come fai a far tutto?” che comunque riesce a mettersi sempre in secondo piano. E se così non è, balza fuori il commento (femminile, ahinoi) che è la litania più dolorosa che si possa rivolgere al cuore di un genitore. Identica da millenni, sia che sibili da una panchina di una piazza o che venga scritta su un forum: “Se non voleva sacrificarsi, perché ha fatto un figlio?”.
Questo è il motivo per cui non mi stupisco che nella Commissione che ha censurato Quando la notte di Cristina Comencini ci sia, pare, una maggioranza femminile. Le motivazioni, dunque: “La violenza della madre sul suo bambino è inquietante perchè trattasi di una madre normale che, spinta dallo stress, diventa violenta verso il figlio pur non volendolo. Si ritiene che il vuoto della volontà di una madre normale ingenera inquietudine nei minori di anni 14″.
Cosa significhi madre “normale” e quale sia il modello accettabile di normalità materna è un mistero. Di fatto, intaccare l’icona dell’accudimento sorridente, insinuare i dubbi, raccontare quella che è, in effetti, la normalità, sembra scandaloso. E le conseguenze non sono belle: perchè inducono un numero non quantificabile di donne a rappresentarsi come eroiche a tutti i costi. In molti casi lo sono, intendiamoci. In moltissimi. Ma non in quanto madri: in quanto persone che ogni giorno, in questo paese, cercano di mettere insieme i pezzi di una normalità davvero impossibile, fatta di servizi inesistenti, di scuole impoverite e allo sbando, di povertà e (tra brevissimo su questi schermi) di posti di lavoro a forte rischio.
Perchè non dirlo? Perché, per tornare a una vecchia questione, le reazioni furibonde lette in rete contro Elisabeth Badinter e chiunque provi a incrinare il mito confermano che Badinter ha ragione: esiste una rappresentazione del femminile che moltissime donne non sono disposte a prendere in considerazione. Meglio bocciarla.
Mala tempora.
Scrive V. Binaghi: “@Andrea e Barbara
Faccio solo presente che tutte le vostre legittime preoccupazioni valgono non solo per la psicologia delle relazioni di genere ma per qualsiasi disciplina insegnata o utilizzata a scuola e fuori di scuola: storia, filosofia, biologia ecc. dove la componente ideologica e quella scientifica sono molto difficilmente separabili. La garanzia, come sempre, sta nell’onestà intellettuale del docente. Se la si mette in discussione in linea di principio, non c’è comunicazione pubblica che tenga.”
…
Quanta confusione e semplificazione!
Le ricerche che riguardano il genere, in particolare le differenze cognitive ancorate alle differenze biologiche, sono piene di errori grossolani che gli stessi scienziati non compiono quando si tratta di altri campi di ricerca. Il cono d’ombra in cui giace la ricerca scientifica sul genere è dimostrato da tempo, è un’anomalia che non si spiega richiamandosi a una generica ‘disonestà intellettuale’ (che casomai ha più a che fare con il discorso economico). La differenza rispetto ad altri campi di ricerca è che il ricercatore, quando si tratta di genere, è egli stesso parte in causa: ciò che va ad approfondire tocca la sua identità, perché il genere è parte fondamentale dell’identità. Ovviamente questa non è la sede per approfondire quali strumenti utilizzare per capire, se per esempio servirsi dei ‘costrutti’ della psicologia costruttivista, dei ‘moduli’ della scienza cognitiva, o di altro ancora.