Ci sono anche storie buone, storie di persone perbene, storie dove non si viene sfruttati o licenziati o sottoposti a mobbing. Storie di editoria. Storie come quelle di A, che sta per amica (cara). Lei me l’ha raccontata, io le ho chiesto di scriverla per condividerla. Tutta vostra.
Ero al sesto mese di gravidanza quando fui chiamata per un colloquio dal mio attuale datore di lavoro, un piccolo editore di cui non farò il nome. Le mie amiche mi avevano consigliato di camuffare la pancia (“potresti semplicemente essere una ragazza in sovrappeso”, mi avevano detto), perché altrimenti mi avrebbero chiuso la porta in faccia prima ancora di farmi accomodare.
Mi presentai a quel colloquio con una maglia fucsia, stile Barbapapà. Il colloquio durò il giusto necessario, e si concluse con un “Siamo interessati. Le faremo sapere”.
Passavano le settimane, continuavano i colloqui da altre parti, ma quel “Le faremo sapere” sembrava non avere un seguito. Alla fine, una email: “Sto cercando di organizzare un incontro con il mio socio e con l’editor, così da vederci tutti insieme”.
Passarono altre settimane, e alla fine l’incontro fu fissato. Ricordo ancora quel pomeriggio. Mi ero ritrovata davanti a due giovani editori e a una navigata editor. Mi avevano riempita di domande, com’era giusto che fosse. Avevano già un ufficio stampa, ma volevano investire sulla promozione aggiungendone un altro. Dopo un’oretta circa, ci eravamo salutati. Uno dei due mi aveva dato appuntamento la settimana successiva per “definire il tutto”. Era stato allora che, spaesata, gli avevo indicato il mio pancione. Lui aveva sorriso e mi aveva chiesto quando andassi in maternità. Gli avevo detto che da fine maggio a fine ottobre mi sarei dedicata al bambino che stava per nascere ma che comunque avrei potuto iniziare a prendere confidenza con le nuove pubblicazioni. “Perfetto – mi aveva detto – facciamo partire il contratto da novembre”. Io, ai tempi, lavoravo per un editore da cui stavo scappando a gambe levate, per cui avrei potuto fare le cose con comodo. E così fu.
La settimana successiva, come da accordi, uno dei due editori prese un foglio di carta intestata della casa editrice – che ancora conservo – su cui scrisse che mi incaricava di seguire il loro ufficio stampa a partire dal mese di novembre di quell’anno, per un minimo di due anni.
Il 4 novembre di due anni fa, i suddetti giovani editori stipularono con me un contratto a tempo determinato come ufficio stampa part time. Il livello e la retribuzione che mi venivano riconosciuti mi stupirono: non mi stavano sottopagando e non mi stavano sfruttando. Mi riconoscevano esattamente quanto un ufficio stampa con esperienza dovrebbe – in teoria – vedersi riconosciuto in busta paga. Pensai che era troppo bello per essere vero. Mi sbagliavo: era tutto verissimo.
Oggi, due anni dopo l’inizio della mia collaborazione con quella piccola casa editrice, mi ritrovo incinta di una gravidanza a rischio. Sono stata costretta a un mese di riposo forzato a letto e a un ricovero ospedaliero. Ah, dimenticavo: il tutto quando sono in scadenza del secondo contratto a tempo determinato. Sono sincera: non ho dubitato nemmeno un attimo che non mi avrebbero rinnovata, ma ho pensato che magari, viste le mie condizioni, avrebbero preso tempo facendo slittare il rinnovo, così da poter stipulare un nuovo determinato. Siamo così abituati a questi trucchetti, che sembra anormale il contrario.
Invece, qualche giorno fa, gli editori dissero che “la mozzarellina era in scadenza e che non avrebbero più apposto alcuna data sopra la confezione” (indossavo una maglia bianca e in casa editrice dissero che sembravo un’ovolina di bufala). “Certo – disse uno di loro – che pizza, ci tocca sopportarti a vita così!”. Tradotto, contratto a tempo indeterminato. Il mio primo contratto a tempo indeterminato dopo anni di contratti a progetto, collaborazioni occasionali e accordi alla volemose bene.
E no, non stiamo parlando di un medio editore. Stiamo parlando di una piccola casa editrice indipendente con una ventina di titoli l’anno. Lì dentro sono tutti assunti, tutte donne, eccezion fatta per i due editori e un collega.
Quando mi capita di chiacchierare con altre colleghe uffici stampa mi dicono che è impossibile che non ci sia la fregatura sotto. No, la fregatura non c’è. È soltanto una storia di non ordinaria onestà.
Impressionante. Veramente. Mentre leggevo pure io dicevo… e ora succede. Ora la fregano. Gli chiedono qualcosa in cambio. Avevo a mente le storie allucinanti lette qui’, per esempio
http://espresso.repubblica.it/visioni/societa/2012/03/02/news/donne-o-i-figli-o-il-lavoro-1.41058
Invece storie come questa restituiscono alla parole “onesta’” un signficato ed un’importanza che a volte mi sembra di non vedere piu’ intorno a me’.
Una storia bellissima e di straordinaria normalita’ in un un Paese dove e’ ordinaria l’anormalita’. Devo proprio conoscere (anche in privato se non si vuole fare pubblicita’) di quale piccola casa editrice si tratta per comprare tutti i venti titoli che pubblicano all’anno. E magari per regalarli, se li trovo belli. Perche’ un’azienda cosi’ deve essere assolutamente presa a braccetto per fare un pezzo di strada insieme. Grazie per la storia.
LaPaola
Sì, sono d’accordo: A., diccelo qual è la tua casa editrice, che mi compro tutta la produzione.
che storia bella e onesta, anche iomvorrei conoscere il nome della casa editice per comprare tutti i titoli
Di sicuro una bella storia. che ha dell’incredibile, dato l’andazzo generale da quasi vent’anni a questa parte.
Nonostante una sinistra che quando ha governato ha introdotto il precariato selvaggio, nonostante il sindacato che le ha dato man forte, c’è chi riesce a sottrarsi a certe logiche.
Ma sono mosche bianche.
Anch’io voglio sapere che casa editrice è per comprare i loro libri. Ho appena sfornato un figlio e so benissimo di cosa sta parlando, questa storia è esemplare e all’editore va tutta la stima e la ammirazione.
Grazie, ma non trovo corretto rivelare il nome della casa editrice, in questa sede.
Se avessi detto di chi si tratta, la storia si sarebbe svuotata del suo valore, perché il tutto sarebbe sembrato puro marketing. Questa, invece, vuole essere solo una storia di persone perbene come non se ne sentono mai. Persone che se stai in ospedale di mandano un sms per sapere come stai, che si fidano del tuo operato e che ti mettono in condizione di poterlo svolgere nel modo migliore possibile. E allora tu sei incentivato a dare il massimo, e anche di più, per ripagare quelle persone di ciò che fanno per te.
Ho lavorato per gli Editori più disparati, tutti uniti da un unico comune denominatore: la pazzia. Chi fa questo lavoro non potrà che darmi ragione. Gli Editori, chi più chi meno, sono quasi tutti affetti da manie di protagonismo, di controllo, da paranoie assurde che fanno vivere nel terrore chi è addetto alla promozione dei libri. Come se tutto dipendesse da noi uffici stampa. E con la conseguenza che l’ufficio stampa è 9 volte su 10 ansioso e isterico, perché per quanto può essere bravo, sintetico e convincente, dipende sempre dal volere di altri (i giornalisti) che 9 volte su 10 non hanno tempo, voglia, sono in riunione, sono oberati di lavoro, non rispondono al telefono e quando lo fanno ti dicono di mandar loro una email che non leggeranno mai.
Due anni fa ho conosciuto i due Editori più “anormali” del mondo. Sono giovani, non sono pazzi, non fanno vivere nel terrore i propri dipendenti e, soprattutto – cosa non da poco – ti ascoltano. Ascoltano quello che hai da dire, da suggerire e alla fine 9 volte su 10 si fidano di quello che tu proponi loro.
La mia anormalità dovrebbe essere normale per tutti. Spero davvero – e lo spero per i miei colleghi in primis – che possa essere così, un domani.
L’amica A mi ha preceduto di poco 🙂 Stavo per scrivere la stessa cosa. Se si rimprovera, come detto altrove, a Joe Lansdale di parlare dei propri libri perché non bisogna autopromuoversi, figurati cosa si sarebbe scatenato per questa vicenda. Che è bella, importante e che si spera possa diffondersi viralmente. 🙂
Hai ragione cara anonima amica. Mi sono commosso per la tua storia sia perché sono emotivo e me ne vanto! sia perché è il mondo che vorrei quello che hai descritto. Sono Bibliotecario e Responsabile di Biblioteca. Perciò scrivimi e dammi il nome della vostra casa editrice. Guarderò il catalogo, ne parlerò con le altre Responsabili delle Biblioteche dell’Istituzione Biblioteche di Roma e se i titoli sono adatti e giusti acquisteremo le vostre proposte. Spero vedervi alla Fiera delle Piccola e Media editoria. Un bacio alle sue creature e auguri per la sua piccola Casa Editrice fatta da grandi persone.
s.cinque@bibliotechediroma.it
non è carino insistere, ma per una volta che abbiamo a disposizione due persone per bene come si fa a rinunciare al piacere di conoscerle, di comprare i loro libri, in pratica di aiutarli a sopravvivere? piuttosto in posta privata, ma sti nomi li dobbiamo avere… ps auguri per la gravidanza a rischio, vedrai che andrà bene, pure io ho avuto una gravidanza a rischio e sono rimasta a letto (senza smettere di lavorare in quanto free lance…) per 4 mesi: alla fine il piccolo-a-rischio è nato di 4 kg e 2 etti, e 54 cm., sanissimo e già rompiballissimo!
che bella questa storia, e che curiosità di sapere i nomi (ma capisco le ragioni dell’omissione)
Una perla rara, al giorno d’oggi… Ma una storia che ti fa sperare per il futuro, perché l’onesta da qualche parte esiste ancora! In bocca al lupo A. 🙂
Fa bene al cuore, leggere storie come questa, significa che senso etico, rispetto e umanità non si sono estinti del tutto. <3
Anche a me, sarebbe piaciuto sapere il nome della casa editrice, però credo sia doveroso rispettare le motivazioni, condivisibili, che portano A. a non divulgarli. 🙂
Proprio una bella storia. da far leggere a tutti e da raccontare, perché diventi contagiosa.
Complimenti e auguri a tutti voi, piccola grande casa editrice ancora capace di farci sognare!
a presto
Bella storia davvero. Però, la cosa che mi fa riflettere di più sono le reazioni di sorpresa o di commozione (inclusa la mia di reazione, di totale sorpresa perchè fino all’ultimo pensavo l’avrebbero fregata). La dicono lunga sul nostro paese. Non a caso il titolo è azzeccatissimo. L’onestà non è nella norma. E questa cosa mi fa riflettere, arrabbiare e forse anche un po’ piangere, ma non dalla commozione purtroppo…